di Gabriele Vecchioni
Ascoli è sempre stata una città ricca di risorse idriche: pozzi, fontane e lavatoi, posizionati in luoghi strategici, punteggiavano la città. Nell’articolo, una breve ricerca di alcune di queste strutture, poche rispetto a quelle storiche (alcune delle quali letteralmente sparite), delle quali sarebbe opportuno completare una “sorta” di catalogo, a futura memoria.
Nell’antichità remota (e in quella più vicina ai nostri giorni), quando nasceva un insediamento urbano, era imprescindibile la presenza di strutture nelle quali fosse garantita la disponibilità di acqua alla popolazione. Nel caso di Ascoli, costruita su un’area sopraelevata circondata da ben due fiumi – tra l’altro, con una buona portata – il problema della carenza idrica non sussisteva. Inoltre, la città picena era attraversata, oltre che dal Tronto e dal suo affluente Castellano, da un terzo corso d’acqua, il Chiaro.
L’utilità dell’acqua, ma forse è più opportuno parlare di necessità, è sotto gli occhi di tutti: ne ricordiamo l’uso potabile e quello per la pulizia, personale e dei panni, l’irrigazione degli orti in città – i più volte citati horti conclusi – e la cura dei giardini.
In questo articolo, andremo alla scoperta di alcune strutture della città (fontane e lavatoi), facilmente raggiungibili da chi volesse visitarle.
Ad Ascoli erano presenti anche diversi pozzi per attingere l’acqua, spesso inglobati in strutture private (i palazzi signorili) o conventuali, come lo splendido pozzo gotico nel Chiostro Maggiore di San Francesco e quello allocato all’interno della sagrestia della chiesa di Sant’Angelo Magno.
Oggi sembra essere venuta meno l’attenzione che si poneva alla manutenzione e alla cura di questi manufatti e spesso si assiste a situazioni di degrado, più o meno accentuato.
Nel periodo che va dal sec. XVI al sec. XIX la cura era invece notevole, per garantire alla popolazione l’uso, in sicurezza, di un bene così prezioso come l’acqua: qualche tempo fa, una brochure del Rotary ascolano, riferita all’allora recente restauro della cosiddetta Fontana dei cani, ricordava che a nell’Ottocento era attiva una “Commissione del pubblico ornato” che doveva vigilare sul decoro (architettonico) e sulla «manutenzione dell’immagine cittadina».
Ma torniamo all’argomento dell’articolo. Il breve spazio a disposizione permette di occuparci solo di alcune di queste strutture ancora presenti in città; diverse sono letteralmente “sparite” e, come propone il già citato opuscolo, «faranno sicuramente bella mostra di sé nella casa di qualche collezionista, chissà dove; altre ridotte a qualche pezzo di pietra e sono depositate in questo o il quel magazzino».
Lavatoio di Porta Romana (vicino alle opere di difesa occidentali della città, nei pressi di Porta Gemina). Si tratta di un lavatoio pubblico ossia di un’area attrezzata per il lavaggio manuale di biancheria, a disposizione di chi voglia farlo. Anche se spesso viene citato come “lavatoio romano”, la fontana-lavatoio risale ai secc. XVI-XVII, almeno nella sua forma attuale, ed è una realizzazione del Rinascimento locale, incastonata in maniera originale sotto la sede stradale, tra case di abitazione e i resti delle mura urbiche.
Di lavatoi pubblici – luoghi attrezzati con acqua corrente, ampie vasche per il lavaggio e piani inclinati per la lavatura dei panni – di questo tipo ce n’erano altri in città, e sono stati utilizzati fino al Secondo Dopoguerra. Uno per tutti, quello della Piazzarola, poco prima del ponte che scavalca il Castellano per arrivare a Porta Cartara.
Il lavatoio di Porta Romana è censito e catalogato nell’elenco dei Beni Culturali della Regione Marche ma è in uno stato di semi-abbandono, con le cannelle dell’acqua non più esistenti, l’area di lavaggio e di scarico dell’acqua ricoperte da uno strato di cemento e lo spazio circostante non adeguatamente curato: un vero peccato, data la location interessante (è vicina ad alcuni dei siti archeologici più importanti della città) e la sua stessa monumentalità (come scritto in precedenza, è un’opera del Rinascimento locale).
Fontana monumentale di Sant’Emidio, attuale lavatoio pubblico (vicino al ponte romano di Porta Solestà). Per la vicinanza di luoghi consacrati al ricordo del martire patrono della città è lecito supporre che fosse uno dei posti dove Emidio esercitava il suo magistero e dove, probabilmente, battezzò Polisia e altri compagni di fede. La tradizione narra che Emidio, all’epoca già vescovo della città, avesse convertito numerosi ascolani e, volendo battezzarli, facesse scaturire un getto d’acqua percuotendo un sasso.
La sorgente è quella che, ancor oggi, alimenta il bel lavatoio di travertino, nelle immediate vicinanze del ponte romano di Borgo Solestà. Secondo Balena, giornalista e storico locale, riporta un’altra tradizione, che lega lo sgorgare dell’acqua alla decollazione del santo, avvenuta dove ora sorge il piccolo tempio di Sant’Emidio Rosso: la testa sarebbe rotolata fino al punto in cui sarebbe fuoriuscita l’acqua che, ancora oggi, alimenta la fonte. In entrambi i casi, il monumento è legato alla figura del martire cefaloforo ed è inserito in un percorso cittadino emidiano.
Nei primi anni del Seicento le vasche del lavatoio furono protette da un’elegante costruzione a cinque arcate, utilizzando una preesistente struttura del sec. XII. Nel corso dei secoli, il paesaggio urbano è cambiato e nel 1905 il piano stradale fu sopraelevato, ottenendo l’attuale configurazione, con il lavatoio “incassato” tra gli edifici e sormontato da una spettacolare balaustra, anch’essa in travertino.
Sopra uno dei lavatoi è murata una lapide del sec. XVII che ammonisce: NON S’IMPEDISCA A DONNE IL LAVAR PANNI SOTTO PENA DI SCUDI TREDICI. ORDINE DEL CONSIGLIO CELEBRATO IL 3 FEBBRAIO 1677.
Fontana dei cani (all’incrocio di Corso Giuseppe Mazzini con Via Giuseppe Sacconi). La fontana monumentale fu costruita nel 1823 (l’inaugurazione avvenne però nel 1824) su disegno di Ignazio Cantalamessa. La realizzazione avvenne a spese del nobile ascolano Filippo Pancrazi Grassi nello Spiazzo San Cristoforo, «dirimpetto alla sua Casa di abitazione e Giardino annesso», dopo il permesso ottenuto dal Consiglio comunale della città. Realizzata in travertino, la fontana si appoggia al piano stradale su una base semicircolare a tre ricorsi (strati orizzontali); l’acqua procede dal catino superiore, passando per le bocche delle statue di due leonesse (una delle quali ha subìto l’affronto della mutilazione di parte della bocca) e raccogliendosi nell’ampia vasca inferiore. Le sculture sul dorso delle quali è appoggiato il catino furono inizialmente ritenute sculture del sec. XIII di recupero, probabilmente dalla chiesa cittadina di Sant’Agostino; studi recenti hanno evidenziato «che i due leoni, di sicura fattura ottocentesca, sono stati scolpiti da due mani completamente diverse (G. Gagliardi, 1993)».
La Fontana dei cani è situata scenograficamente in un punto di grande transito, addossata alla parete laterale della chiesa di San Cristoforo, l’ingresso della quale è in Via d’Argillano. Inizialmente appoggiava completamente alla parete della chiesa, prima che quest’ultima subisse la demolizione dell’abside che, nei primi decenni del Novecento, permise la realizzazione dell’attuale Via Sacconi.
«La fontana, detta inizialmente “dei leoni”, prese poi il nome attuale “dei cani”, perché divenne “l’abbeveratoio di tutti i cani della città” (R. Gabrielli, 1896)».
Recentemente, è stata oggetto di uno sfregio (fortunatamente, solo “culturale”); qualche buontempone ha voluto trasformare la vasca superiore in cono gelato, appoggiandovi la parte superiore dell’insegna pubblicitaria di una gelateria: una performance artistica di alto livello (alcolico, probabilmente; leggi qui l’articolo).
Fontana (scomparsa) del Bove (spalla destra del Ponte vecchio di Campo Parignano, sotto Porta Tufilla). L’ultima struttura che analizziamo è una “fontana che non c’è più”: è l’antica Fons Bovis (la Fonte del Bove o, meglio, de lu bòve).
La fonte insisteva sulla spalla destra del Ponte vecchio di Porta Tufilla (quello più basso, per intenderci), conosciuto anche come Ponte Sant’Antonio; già Ponte Tufillo, eretto su un precedente ponte romano ai tempi del vescovo Alberico (sec. XI), poi ricostruito nel 1546 e, nella forma attuale, da Lazzaro Giosafatti (sec. XVIII).
La fontana era così chiamata per la presenza della figura della testa di un bue, dalle cui froge usciva il getto d’acqua.
La fonte, citata al n. 82 delle Notabiliora nella pianta di Asculum Picenum del Ferretti (1646), c’era già nel sec. XIV ma oggi il “bue” non c’è più, diventato, probabilmente, uno dei reperti citati nell’opuscolo del Rotary, fin dall’immediato Secondo dopoguerra. C’è però la sua memoria, tramandata da un disegno di Giulio Gabrielli, artista ascolano del movimento dei Macchiaioli e acuto osservatore delle realtà cittadine. Più recentemente, il prof. Giorgio Giorgi ne ha dato una ricostruzione nel suo Cronaca ascolana (1996).
Giulia Civita, appassionata segnalatrice di cose ascolane, ci ricorda (citando il Cesari) che la fonte «si raggiungeva facilmente mediante un sentierino di circa 30 metri, che saliva sulla scarpata subito nei pressi della spalletta del Ponte vecchio, attualmente chiuso da un cancello».
Lo storico luogo è ormai invaso dalle erbe e dai rovi che ne impediscono la frequentazione; sarebbe interessante che l’Istituzione competente se ne facesse carico: probabilmente, è un luogo demaniale e la caratteristica dei beni demaniali è la loro inalienabilità e imprescrittibilità, cioè non possono essere venduti e non possono essere usucapiti, rimangono sempre di proprietà “pubblica” anche se abbandonati per lungo tempo (è questo il caso in questione).
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