di Luca Capponi
«Quando il passato detta legge, i ricordi diventano sogni e i sogni diventano ricordi dal contorno un po’ irreale, quasi fantastico. Ed è proprio così, in maniera fiabesca, che ricordo Piazza del Popolo durante il Festivalbar del 1993, sulle note di “Sei un mito”. Ricordo chiaramente l’abbraccio della gente, c’era davvero la voglia di ballare, di saltare e di gioire insieme. Ecco, quel momento rappresentò una comunione estrema col pubblico, che poi in fondo è ciò che faccio ancora adesso a teatro».
Negli anni in cui se ne era andato, all’apice del successo (era il 1994), ne hanno dette tante, anche se non le veniva mai a sapere perché stava vivendo «un’altra realtà, tra Parigi e Los Angeles. Solo dopo ho saputo che c’era chi mi vedeva vagare di notte nel cimitero di Parigi con Jim Morrison, chi mi immaginava nei panni di Pippo a Disneyland, chi diceva fossi stato rapito dagli alieni o che ero diventato pazzo e aveva buttato tutti i vestiti dalla finestra».
Lui però non si è mai arrabbiato. Ci ha però riflettuto sopra, perché «c’è gente che dà da mangiare ai propri figli vestendosi da Pippo ed io non ci vedo nulla di male, quelle cose erano semplicemente false, inoltre credo che spesso la vita sia molto più grande delle leggende metropolitane».
Parlando con Mauro Repetto trova facilmente conferma la sensazione, già maturata seguendo l’artista, di trovarsi ad interagire con una persona per nulla costruita, cordiale ed umana, una delle poche rimaste che da sempre segue ciò che sente. Il motivo? Eccolo: «Anche io sono un fruitore, uno spettatore, vado sul palco con la semplicità di chi vorrebbe divertirsi e fare una festa, sono solo uno del pubblico che sale sulla scena».
Lui, che col sodale Max Pezzali cantava un brano come “Te la tiri” è invece uno che non se la tira affatto. Tutt’altro. Il pubblico ascolano, e non solo, lo sta riscoprendo e riabbracciando grazie ad un anno, il 2024, che ha riportato l’attenzione, a dire la verità mai scemata, sul fenomeno 883, soprattutto sui primi due album, grazie anche alla fortunata serie andata in onda su Sky che porta il nome del mitico disco del 1992 “Hanno ucciso l’Uomo Ragno”.
Repetto, invece, sta percorrendo in lungo ed in largo l’Italia con lo spettacolo teatrale “Alla ricerca dell’Uomo Ragno“, che sarà al Ventidio Basso di Ascoli il prossimo 18 gennaio: un successo che racconta gli inizi del duo in una versione fantasmagorica, magica, caleidoscopica, dove Mauro e Max sono due menestrelli che cercano udienza dal…conte Cecchetto, incontrando di volta in volta strani personaggi, tra videoclip, fumetti, musica ed effetti visivi. Uno spettacolo del tutto particolare ed unico.
«Volevo essere surrealista come quando ti siedi a tavola coi tuoi amici e cerchi una battuta per rompere il ghiaccio, partendo dalla realtà ma con autoironia – conferma Repetto -. La favola medievale mi sembrava la cosa migliore per raccontare il mio segmento di vita, da Pavia a New York passando per Los Angeles e Parigi. Ho tante ispirazioni, vero, ma poi alla fine vado dritto dove ho voglia di andare e quindi sono originale».
«Avevo voglia di vivere il teatro come fosse lo stesso palcoscenico di quando lavoravo nei villaggi vacanze e facevo rap e sketch, 35 anni fa – ribadisce -. C’è un fil rouge in questo; la voglia di cantare e ballare insieme a tre o quattro generazioni, ripeto, come in un villaggio vacanze. Anche in teatro puoi sentire il profumo delle donne in prima fila, è una dimensione che mi esalta molto».
Nessuna apparente differenza, dunque, con quanto accadeva di bello tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, anche se nel frattempo è cambiato praticamente tutto, pure in campo musicale. «Ma le emozioni sono sempre enormi, quelle che ho provato ad Ascoli 32 anni fa saranno uguali a quelle che proverò tra due settimane – prosegue -. A livello emotivo non si può scindere una vibrazione che è unica, come un tamburo che ti batte dentro».
E a proposito di emozioni, Repetto cita un episodio in particolare, uno tra i tanti curiosi e, appunto, surreali accaduti in quegli anni di consacrazione. «In realtà è addirittura precedente gli 883, credo fossimo nel 1989, e fummo invitati sul palco niente meno che da Afrika Bambaataa, una delle figure storiche del rap che in quel periodo aveva appena pubblicato in singolo “Reckless” insieme agli UB40 – racconta -. Ero riuscito ad avvicinarlo insieme ad alcuni membri del suo gruppo in una discoteca di Bari, dopo la trasmissione “Azzurro” che si teneva al Teatro Petruzzelli, dove ero andato per cercare di conoscere qualcuno. Dissi loro che facevo rap insieme ad un amico di Pavia e ci invitò in una discoteca dove si sarebbero esibiti due giorni dopo e che si trovava proprio a Pavia, fu incredibile, davvero, ci invitò solo perché gli avevo detto che facevamo rap nella maniera più faccia tosta e semplice del mondo».
Quel rap che poi si è trasformato in qualcosa d’altro, segnando per sempre la musica italiana. A Repetto, quasi con fare ludico, chiediamo due definizioni di 883: una soggettiva ed una oggettiva, da dizionario della musica.
«Per l’enciclopedia Treccani scriverei così: due ragazzi che hanno cambiato la metrica e il contenuto dei testi della canzone pop italiana perché venivano dal rap in inglese – afferma -. Mentre a livello personale penso a due ragazzi che si divertivano dovendo trascorrere in qualche modo il “diagonalone” del pomeriggio pavese dalle 14,30 alle 19,30 e a volte anche la notte, il nostro era il passatempo della vita di un giovane di provincia».
Semplice a dirlo e a ricordarlo, come tutte le cose epocali. Ma, davvero, gli 883 del biennio’92-’93 (l’anno di “Nord sud ovest est“) hanno segnato profondamente i tempi.
«Abbiamo versato la metrica del rap ed il linguaggio della vita di tutti i giorni nel pop italiano – conferma -. Nel rap si parlava la lingua della strada, spesso utilizzando anche delle parolacce e a volte esagerando, però la differenza fu proprio la nostra provenienza da quel mondo. Davanti all’impero milanese ci sentivamo idealmente come Tom Waits e Springsteen di fronte all’impero di Manhattan, anche noi ci sentivamo del New Jersey, abbiamo mescolato il country, il rock americano e molto altro costruendo le nostre influenze fatte di tanti ascolti, di riviste musicali e di ore passate nei negozi di dischi»
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