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L’eredità di don Francesco: una donazione speciale per l’ospedale “Mazzoni”

ASCOLI - Il parroco rimosso dal suo incarico si è impegnato per rivitalizzare la cappella del settimo piano con l’installazione di vetri artistici storiografati. Un progetto da 90.000 euro di cui si è saputo solo dopo il suo allontanamento: «Qualcuno mi ha rimproverato di aver speso soldi piuttosto che darli ai poveri, ma i poveri che mi sono stati affidati sono gli ammalati. Dal pubblico non si deve solo prendere, ho voluto dare un esempio di segno opposto con la speranza di essere emulato»
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Don Francesco accanto ad una delle vetrate oggetto della donazione

 

 

di Walter Luzi

 

Francesco, il prete benefattore. A fine mese don Francesco Simeone, ex parroco dell’ospedale “Mazzoni” farà rientro anticipato nella sua diocesi di provenienza, quella di Taranto, dopo sette anni molto intensi passati quasi tutti nelle corsie del nosocomio ascolano. Una decisione, quella della Curia locale, di privarsi di un prete così amato e apprezzato, che ha suscitato le vivaci proteste dei fedeli, con tanto di raccolte di firme, striscioni e sit in. Tutto inutile. Ma nell’ultimo mese della sua permanenza è venuta alla luce anche la notizia di una sua precedente, generosa donazione proprio a favore dell’ospedale ascolano. Fatta indebitandosi pesantemente, anche. Ed ora che si ritrova senza il suo stipendio, e senza prospettive concrete di impiego, ancora non definite, nella sua diocesi di appartenenza, le cose per lui si complicano un po’. E allora va raccontata anche questa storia, di altruismo e buoni sentimenti, di altri tempi. Di generosità abnorme, che non appartiene alla nostra epoca sempre inquinata da egoismi, bassi interessi, e immancabili tornaconti.

 

Il progetto

 

L’idea nasce nella testa di don Francesco Simeone sotto la prima, devastante ondata del Covid. In cappella non va più nessuno a causa delle misure di sicurezza anti pandemia. È solo con Dio. Viene a sapere che lavori di ristrutturazione previsti per l’installazione di nuovi infissi a taglio termico si fermeranno al sesto piano senza interessare la sua cappella. Trova in monsignor D’Ercole la spinta decisiva al progetto che cova in cuor suo. Impegnarsi in prima persona per ristrutturare le due cappelle dell’Ospedale, che necessitano assolutamente di un restyling dopo anni si trascuratezza. Sono diventante quasi dei magazzini, dei ripostigli di fortuna per ogni sorta di materiali, ma Francesco vuole che tornino presto ad essere cuori pulsanti della catechesi nella struttura. Pensa di ridare nuova luce a quella del settimo piano con l’installazione di vetri artistici storiografati.

 

I decori di immagini sacre li comincia a buttare giù subito lui stesso, e poi con la collaborazione di Cecilia Sanchez. Pensa ad una riqualificazione che interessi anche l’adiacente pianerottolo, la tinteggiatura, l’illuminazione, e l’installazione di un nuovo impianto audio/video. Progetto ambizioso. E costoso. La stima iniziale di 90.000 euro lieviterà poi con l’aumento indiscriminato delle materie prime causati dallo scoppio della guerra fra Russia e Ucraina. Ma chi pagherà? Lui ovviamente. Da normale cittadino, con l’aiuto di altri soggetti privati che gli garantiscono appoggio e contributi.

Un altro scorcio della rinnovata cappella dell’ospedale Mazzoni

 

Il pubblico siamo noi

 

«Molta gente crede che dal pubblico si debba solo prendere – ci spiega Don Francesco – spesso senza riguardo per la conservazione dei beni di cui si usufruisce. Io ho voluto dare un esempio di segno opposto, magari con la speranza di essere emulato da altri. Al pubblico si può anche dare. Meglio donare. Perché il pubblico è di tutti. Appartiene a tutti noi».

 

È un puro, un sognatore, don Francesco Simeone, ma non uno sprovveduto. Investe nel suo progetto tutte le entrate di cui dispone, certo, ma è forte dell’appoggio della sua famiglia, dei suoi fedeli, di qualche sponsor, e del vescovo D’Ercole. Avvia l’iter per la donazione alla Ast, ma direttori e commissari in quel periodo si alternano con una certa frequenza e ogni volta deve ricominciare daccapo.

 

È Massimo Esposito, nel marzo del 2022, a dare il primo consenso scritto all’operazione, mentre Maria Capalbo formalizza, nell’agosto dell’anno dopo, l’accettazione della donazione, successivamente siglata dall’atto notarile sottoscritto dalla nuova direttrice Nicoletta Natalini nell’agosto del 2024. Subito dopo arriva anche la ratifica dall’ufficio diocesano per l’arte sacra che sottolinea la generosità di benefattori privati, anche se su beni (stavolta) di proprietà pubblica. Si parte.

 

Arte e fede

 

Le vetrate artistiche vengono installate a settembre del 2023. Quindici interne alla cappella, e sei sul pianerottolo. La ditta realizzatrice e fornitrice è la prestigiosa Progetto Arte Poli Srl di Verona. Sessant’anni di esperienza nel settore. Il titolare e fondatore Albano Poli, imprenditore e artista, scomparso di recente, accorda a Don Francesco una ampia e fiduciosa discrezionalità per quello che concerne il relativo pagamento. Una concessione molto generosa, e di certo inusuale per i tempi che corrono. Le vetrate costano care perché sono tante, distribuite lungo le pareti interne della cappella e del pianerottolo di accesso. Hanno caratteristiche tecniche di alta qualità con doppia vetrocamera, nel rispetto dei valori di trasmittanza di luce e calore solari che variano da regione a regione. Pur imbarcatosi in questa operazione animato dai più nobili propositi, Don Francesco è stato anche criticato.

 

«Qualcuno – ci racconta – mi ha rimproverato di aver speso tutti quei soldi in questa maniera, piuttosto che darli ai poveri. Anche Giuda Iscariota fece la stessa osservazione a Gesù.  I poveri che mi sono stati affidati sono gli ammalati. E sono “poveri” anche tanti loro cari che salgono qui in cappella a pregare mentre loro sono in chemioterapia o sotto i ferri del chirurgo. Ho voluto che trovassero un ambiente accogliente, decoroso e dignitoso, adatto ad ospitare persone afflitte, che cercano momenti di raccoglimento e preghiera. Che entrano qui dentro prostrati, ed escono, spesso, rinfrancati. Quando sono presente qualcuno mi chiede di illustrare queste immagini, facendo nascere così anche dei bellissimi momenti di catechesi».

 

«Tutto è nato da un rispetto nei confronti del luogo, perché aumenti l’attaccamento di tutti verso di esso – continua don Francesco -. Non sono stati spesi bene, ma benissimo, i miei soldi. Non ho approfittato infatti del denaro di nessuno. Né provenienti dalla Ast, né dall’otto per mille, né dall’economato diocesano. Non sono stati mai richiesti, né elargiti fondi pubblici. E non lascerò debiti a nessuno. Chi ha messo in giro queste voci ha detto il falso. Sul contratto di acquisto c’è la mia firma, la responsabilità è mia personale. Se chi mi ha criticato vuole fare donazioni ai poveri le faccia. Ognuno di noi ha la propria sensibilità».

 

 I suoi fedeli, parrocchiani e non, gli sono restati sempre vicini. Molti sono suoi stretti collaboratori. Cresciuti di numero, anche grazie a lui, da poche unità a circa una quarantina, negli ultimi anni. In ossequio, fra l’altro, alla convenzione legata alla sua assunzione, che auspicava «la nascita e l’incremento di associazioni di volontariato in ambito ospedaliero».

 

«Il lavoro più grande, ma anche più gratificante – spiega sempre don Francesco – si fa girando nei reparti. I laici non sono miei aiutanti. Sono chiamati, come me, anche loro da Cristo. Ministri straordinari della comunione si chiamano. Volontari. Io li considero corresponsabili. Un punto qualificante, ritengo, risvegliare l’altruismo. In una società permeata di egoismo è bello incontrare persone che vogliono impegnarsi, spendersi, e disinteressatamente, per gli altri. Soprattutto in momenti di dolore che, dentro un ospedale, sono quotidiani. Li ringrazio, ancora una volta, tutti, per il sostegno, anche economico, che mi offrono».

 

I soggetti

Don Francesco ha personalmente ideato e progettato le scene, ha scelto i soggetti, quasi tutti santi e beati, o sulla buona strada per diventarlo, che hanno operato, o hanno gravitato, intorno ad ambienti ospedalieri, sanitari, o di sofferenza, in ogni epoca. Ed ha disegnato lui stesso le prime bozze delle scene. Sono tutte cariche di simbolismi e significati. Guarigioni, malattie, assistenze agli infermi, o, spesso, donazioni della propria vita per gli altri. Consigliamo la visita. Ne vale la pena. Per la bellezza delle vetrate, e perché si imparano anche un sacco di cose durante il breve tour che diventa anche momento di catechesi.

Il dipinto di Filomena Lanzillota nella cappella al 7° piano dell’ospedale

 

«I santi – dice don Francesco – non sono rappresentati in maniera ieratica, ma in scene di vita terrena. Non sono mai soli. La santità nel cristianesimo è formazione, ricerca di compagnia. L’orante non sente il loro distacco ma la vicinanza, qui ed ora. I nomi di ognuno sono scritte su sassi. Cristo e i santi sono le pietre d’inciampo per il male. Le vetrate sono piene di colori perché il cristianesimo è gioia, non grigiore. Un mondo a colori che traspare dagli animi».

 

Camillo De Lellis, a cui, pochi lo sanno, la cappella è intitolata, è ritratto al posto d’onore al fianco dell’altare. Ha inventato lui la teologia della sofferenza, come a Florence Nightingale, la signora con la lanterna, perchè visitava i suoi pazienti anche di notte, si deve gran parte della moderna scienza infermieristica sistematizzata. Santi e beati, famosi e semi sconosciuti, quasi una cinquantina, raccolti in una galleria che attraversa epoche diverse e vocazioni comuni al conforto, fisico e spirituale in luoghi di sofferenza e di morte. Come Maria Teresa di Calcutta con i suoi  lebbrosi, i maledetti del mondo, o beato Pier Giorgio Frassati morto contagiato dagli ammalati che assisteva.

La targa di ringraziamento ai sanitari dell’area vasta 5

 

Da Santa Lucia, ai santi anargiri Cosma e Damiano, a San Rocco ammalato di lebbra e consolato solo da un cane. O il dottor Giuseppe Moscati, medico napoletano morto nel 1927, che non si faceva pagare dai pazienti più poveri, anzi infilava di nascosto nelle loro ricette ripiegate anche qualche soldo. Dalle fondatrici dell’ordine delle suore ospedaliere a San Biagio, fino a Luigi Gonzaga e Domenico Savio. Il quadro dedicato ai Santi innocenti martiri è il preferito di Don Francesco. I più deboli e fragili, vittime, nati e non nati, degli Erode antichi, e anche, soprattutto, di quelli moderni. Che ancora imperversano, impuniti, aggiungiamo, come a Gaza. Un’opera dell’artista pugliese Filomena Lanzillota l’ha donata sempre lui a ringraziamento di tutti gli operatori, sanitari e non, della allora Ara vasta 5 durante l’emergenza pandemica.

 

Sottolinea l’umanità di tutti i soggetti raffigurati, degenti e personale, che traspare dalle mascherine, e sorretta dal sostegno, per tutti, costituito dalla presenza di quel “Gesù, il Dio vicino” che dà il nome all’opera. E poi trovano posto anche alcuni ragazzi speciali.

Il matrimonio in corsia di Paolo e Alessandra sotto covid

 

Andrea, Paolo, Benedetto

 

Don Francesco ha voluto inserire nella sua personale galleria di santi e beati anche giovani e giovanissimi che hanno incontrato la fede nel momento di estrema sofferenza. Vinti dalla malattia in profumo di santità. Amici di Cristo, li definisce. Andrea Paoletti e Paolo Giacomini. Due ragazzi speciali, due ammalati terminali che si conoscono durante le comuni terapie anti tumorali a Bologna, e morti entrambi durante la pandemia da covid. Lui ha avuto modo di conoscerli molto bene in quell’ultimo periodo della loro vita. Paolo, sempre solare e positivo, parlava di ogni argomento, ma mai delle sue sofferenze. Andrea se ne è andato il 5 gennaio del 2022. Appena quattordici giorni prima, il 22 dicembre, avevano voluto sposarsi, lui e la sua Alessandra, nel reparto di Medicina, dove erano tutti commossi, medici e infermieri, quel giorno insieme a loro.

Monsignor Palmieri officia la cerimonia in corsia

 

Lui nel suo letto, lei seduta a fianco con il suo velo bianco da sposa. La fede che riesce ad illuminare, a tramutare in festa, anche i momenti più bui. Don Francesco aveva invitato a celebrare quelle nozze in corsia proprio monsignor Palmieri, da poco arrivato a guidare la diocesi ascolana.

 

«Parliamo troppo spesso – ci dice sempre Don Francesco – di giovani senza carattere, senza ideali, senza valori. Ho voluto ricordare su queste vetrate anche qualcuno che di questi, invece, ne aveva in abbondanza».

 

Come Benedetto Ricci, un sambenedettese aperto al Prossimo, che si era incuriosito, interessato al suo progetto. Che gli ha suggerito modifiche floreali al quadro dedicato a Padre Pio, un santo a cui lui si sentiva particolarmente legato. Don Francesco gli aveva portato la bozza del disegno da arricchire sul suo letto. Suo figlio ha poi voluto contribuire a pagarla quella vetrata, secondo le volontà del padre, che non ha avuto il tempo di vederla realizzata.

La cappella della Resurrezione

 

La cappella della Resurrezione

 

Un’altra impresa don Francesco Simeone l’ha compiuta restituendo alla collettività la cappella della Resurrezione, attigua all’obitorio. Adibita per metà a deposito di materiali vari la chiesetta a pianta circolare del “Mazzoni”, lungamente inutilizzata, correva il rischio di essere destinata a nuova sala multimediale.

 

Lui, ancora grazie all’appoggio del vescovo D’Ercole, la rimette completamente a nuovo donandole una seconda vita dopo anni di abbandono. Il soffitto è blu come il cielo, le pareti ocra come la terra. Comunità, celeste e terrena, che si incontrano. Il pavimento dell’altare è in resina azzurra come l’acqua, che già dai versetti dell’Antico testamento è descritta come grazia di Dio, rigato dal rivolo rosso del sangue dell’Eucarestia. «Vicino a un luogo di morte – sostiene Don Francesco – ci deve essere un luogo di resurrezione. Vicino a un luogo di sofferenza, un raggio di speranza e di luce». In tantissimi, dopo la riapertura, hanno voluto allestire proprio all’interno della cappella la camera ardente dei loro cari.

Il dipinto nella cappella della Resurrezione

 

Un ambiente ideale, per il raccoglimento e la preghiera, in certe dolorose circostanze. Un patrimonio salvaguardato e restituito alla fruizione della collettività grazie a don Francesco Simeone. Nel quadro che sovrasta l’altare, opera del sangiorgese Francesco Delli Santi, tornano i simbolismi. Candele e colombe, le tre Marie, e le croci da abbracciare. Il crocifisso in stile ortodosso è invece opera dei monaci di Valledacqua. All’ingresso della cappella due murales da ammirare. Sopra la porta raffigurati tutti i santi e beati del Piceno di tutti i tempi. Sono dodici. Da Sant’Emidio a San Marcellino da Capradosso. Di lato, a tutta parete, Sant’Emidio che sostiene, aiutato da tutti i dipendenti, l’Ospedale “Mazzoni”. E’ opera di due artiste donne: Cecilia Sanchez e Barbara Collina.

 

Il dipinto con le effigi di tutti i santi piceni all’ingresso della cappella della Resurrezione

 

L’addio a fine mese

 

«Il vescovo Palmieri era a conoscenza di questo mio progetto fin dal dicembre 2021 – continua don Francesco – quando, appena insediato, ci venne a trovare. Si dimostrò favorevole e bendisposto, anche ad offrirmi, eventualmente, un aiuto. Aiuto che oggi mi sento di non poter accettare a nessun titolo».

 

È dispiaciuto il prete pugliese per la nota vicenda del suo allontanamento di cui abbiamo già dato notizia (in coda trovate i link ai precedenti articoli). Una interruzione di rapporto anticipata giunta all’improvviso, inaspettata. Per di più comunicatagli per iscritto dalla direzione della sola Ast (che non ha competenza sul suo ruolo) su richiesta della diocesi ascolana. E confermatagli solo verbalmente dai due vescovi. Mentre permane il silenzio più totale sul versante pugliese.

Il murale dall’ingresso della cappella della Resurrezione

 

«Mai più sentito – conferma don Francesco – neppure telefonicamente, il vescovo Cimiero dopo il nostro unico incontro del 19 novembre. Mai ricevuti decreti vescovili ufficiali di trasferimento. Ad oggi non conosco ancora quale sarà la mia nuova destinazione».

 

Anche i nostri tentativi di contattare la curia di Taranto, per una intervista con poche domande inviate per e-mail, sono caduti nel vuoto. Un no comment, teso evidentemente a dribblare il caso, ribadito direttamente anche ad un pugno di fedelissimi di don Francesco, giunti in trasferta eroica ad una funzione pubblica del prelato nel tarantino, il giorno dell’Epifania. Non trovando dunque conferma nella richiesta, pressante e immediata, di rientro nella diocesi di appartenenza, la motivazione del brusco allontanamento del prete di Martina Franca dalla sua parrocchia ospedaliera continua a rimanere avvolta nel mistero.

 

Il suo contratto con la Ast, sollecitato da monsignor D’Ercole nel 2020 fino a tutto il 2022, e poi prorogato di altri tre anni, a partire dal primo gennaio 2023, dallo stesso monsignor Palmieri, sarebbe scaduto naturalmente il 31 dicembre 2025. Che cosa ha imposto di anticipare, fra proteste e malcontento, questa interruzione del rapporto?

 

Domenica 26 gennaio presso la chiesa di San Giovanni Evangelista alle 11 don Francesco Simeone concelebrerà con don Orlando la sua ultima messa domenicale in Ascoli. Seguirà un incontro conviviale di addio insieme ai suoi fedeli. Cinque giorni dopo ripartirà per la sua terra. Per tutto quello che ha dato e dimostrato in questi anni nella sua grande parrocchia ospedaliera, e per quello che ha lasciato pagandolo di tasca propria, si sarebbe meritato, almeno, un trattamento migliore. Una umanità rara, e una generosità estrema, le sue, che non andavano ricompensate con un licenziamento.

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