di Gabriele Vecchioni
«… i monti furono tosto in armi e cominciarono a formicolare di una strana a terribile genìa di armati. Han falci, o scuri, o forcine, o fucili da caccia per armi, han croci o Madonne per insegne; là si sparpagliano per i campi, per i boschi, per i monti, qua si raccozzano e formano torme immani per assalire terre, castelli, città; il più ardito se ne fa capo: là un prete o un frate, qua un contadino o un soldato; e rubano, ammazzano, saccheggiano, incendiano senza regola e senza pietà, gettando dappertutto lo spavento con atti di ferocia bestiale (A. Crivellucci, 1893)».
Al fenomeno del brigantaggio Cronache picene ha dedicato diversi articoli. In questo, vogliamo fare il punto sul brigantaggio dei Monti Gemelli, recuperando ampi brani dal testo del capitolo ad esso dedicato nel volume escursionistico relativo a queste montagne, scritto da me e dall’amico Narciso Galiè per i tipi della benemerita casa editrice SER. Lo faremo dividendo il lavoro in due puntate.
La presenza dei briganti nelle grotte e nei paesi alle falde della dorsale della Montagna dei Fiori e di quella di Campli è stata una delle caratteristiche identificative dei Monti Gemelli e delle aree limitrofe. Nomi come quello di Donato De Donatis, autonominatosi Generale dei Colli, di Giuseppe Costantini alias Sciabolone (nato a Santa Maria a Corte di Lisciano, sulle pendici del vicino Colle San Marco) sono tuttora presenti nell’immaginario collettivo degli abitanti della zona.
Un altro nome “importante”, quello del famusissimus caput bannitorum Marco Sciarra, trovò sui Gemelli (sul versante settentrionale della Montagna dei fiori, in località La Croce) l’epilogo della sua storia, ucciso a tradimento da suoi sodali (la sua storia è raccontata in un precedente articolo, leggilo qui).
Dal punto di vista storico, il brigantaggio locale, intendendo con esso il fenomeno della ribellione all’autorità e la resistenza alle prepotenze dell’invasore, iniziò con i fuoriusciti ascolani, ai tempi della cosiddetta “guerra sociale” contro Roma (I sec. AC). Alla presenza di questi “banditi”, rifugiatisi tra i boschi delle montagne limitrofe alla città si deve il rafforzamento del presidio romano ad Asculum, forse nella zona dell’attuale Borgo Solestà (per alcuni, il toponimo potrebbe derivare proprio da Sullae statio, presidio di Silla).
Se invece si restringe la visione a epoche più recenti, si può far risalire la nascita del fenomeno a due periodi distinti. Il primo è quello relativo al brigantaggio cinquecentesco, legato alla situazione di disagio sociale ed economico della popolazione; la seconda fase si ebbe alla fine del ‘700, come reazione sanguinosa, più o meno spontanea, di contadini e montanari alle invasioni delle truppe francesi; esso proseguì, con motivazioni diverse, fino all’epoca dell’Unità d’Italia.
La lotta brigantesca contro i francesi si trasformò, nell’Ottocento, in quella contro i piemontesi. Particolarmente efficace è il contributo dato ai difensori della Fortezza di Civitella, ultima piazzaforte del Regno a resistere all’invasore, nonostante il Re di Napoli si fosse arreso e la municipalità avesse richiesto l’adesione al Regno d’Italia.
Al fenomeno brigantesco più recente ha dedicato una ponderosa ricerca e un volume il dottor Timoteo Galanti; la lettura di quest’opera è irrinunciabile per chi voglia occuparsi dell’assunto.
Ma torniamo alle nostre montagne.
La fase del brigantaggio moderno iniziò nel sec. XVIII e terminò intorno al 1870, con il declino dello Stato Pontificio (all’epoca della “breccia di Porta Pia”). Le fasi della lotta brigantesca che interessano i Monti Gemelli sono proprio queste, contro i Francesi prima e poi, nella seconda metà dell’Ottocento, come reazione agli eventi che portarono all’Unità d’Italia. La lotta fu particolarmente violenta quando il governo laico, borghese e liberale, istituì la leva militare (sconosciuta nel Regno borbonico) e impose nuove tasse, eliminando i diritti d’uso delle terre del Demanio (famoso è l’aneddoto, raccontato dal Regi in un suo volume, del carrettiere abruzzese che protestò con l’addetto del Dazio: «Quésse è lu Re de Sardegna! Ha messe le tasse pure su la…» e giù una volgarità, facilmente intuibile). Furono i contadini e i montanari le principali vittime di questa nuova politica e, sotto la guida nemmeno tanto occulta dei religiosi, insorsero in maniera sanguinosa contro gli “invasori” piemontesi e i loro sostenitori. Solo alla fine del secolo l’esercito riuscì a soffocare la rivolta.
L’area boscosa dei Monti Gemelli (la Montagna dei Fiori, che sovrasta Ascoli, separata dalla dirimpettaia Montagna di Campli dalle strette Gole del Salinello, proprio di fronte alla Fortezza borbonica di Civitella del Tronto) e la contigua Valle Castellana (“scavata” dal Castellano, l’affluente principale del fiume Tronto, e dai suoi tributari) costituiva l’ambiente ideale per le azioni dei fuorilegge.
Essa ha un aspetto tormentato, con valli strette, forre profonde e grandi banchi di arenarie fortemente inclinati: un territorio ideale per le imboscate e una guerra di guerriglia come quella dei banditi prima e dei briganti poi.
Le loro iniziative erano agevolate, inoltre, dalla presenza della linea di confine e, infine, come ricorda il Celani nelle sue memorie, dalla segregazione della vita civile che aveva reso difficile, in ogni tempo, il progresso, ma, al contrario, favorito la riottosità alla legge [e il brigantaggio].
Per quanto riguarda l’appoggio della popolazione a questi combattenti, ricordiamo la risposta del generale Giuseppe Covone che, interrogato alla camera dei deputati il 31 luglio 1863 sul perché le popolazioni dimostravano simpatia ai briganti, dichiarò: «I Cafoni veggono nel brigante il vindice dei torti, che la società loro infligge».
Prima di occuparci dei personaggi che operarono in zona, leggiamo alcune testimonianze d’epoca relativi alla lotta della quale ci stiamo occupando.
La prima è dello scrittore francese i Stendhal (pseudonimo di Henri Beyle, 1783-1842) e riguarda le motivazioni alla base di questa attività criminosa: «Questa professione [quella del brigante, NdA] fu inizialmente esercitata da uomini che trovavano più onorevole conservare in tal modo la propria indipendenza che non piegare le ginocchia davanti all’autorità pontificia. (…) Uomini dotati di una così selvaggia energia erano animati più da un sentimento di opposizione al governo che non da una premeditata intenzione di attentare la vita o alle sostanze di privati cittadini».
Le altre due citazioni sono più che altro “di colore” ma anch’esse interessanti.
Il giuramento del brigante. Essere briganti comportava l’accettazione di codici comportamentali e di valori specifici che, dopo l’Unità d’Italia del 1860, coincidevano con quelli del legittimismo borbonico. Un cronista d’eccezione, lo scrittore Marco Monnier, riporta, in un suo volume del 1862, il testo dell’impegno che ogni brigante pronunciava prima di «partire» per le spedizioni contro i piemontesi: «Noi giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre); e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma.
Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati.
Noi promettiamo anche coll’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo!»
L’uniforme del brigante. Nel suo bel volume sul brigantaggio piceno, Timoteo Galanti descrive l’abbigliamento e l’armamentario tipici del brigante ottocentesco: «Gli Insorgenti, essendo una “Truppa di Massa” costituita da “Corpi Volanti“, non avevano la prerogativa di una vera e propria divisa ma vestivano alla meglio con quello che riuscivano a racimolare durante i saccheggi nelle case di famiglie benestanti: il loro abbigliamento consisteva in un giubbetto corto e pantaloni ampi di velluto o stoffa nera, un grande mantello, indispensabile per le brusche variazioni climatiche, pelli di pecora o di capra sulle spalle per ripararsi dal freddo, sandali in pelle attaccati alla gamba da alcune fasce di lana e cappello conico con nastri neri pendenti. Caratteristici erano i capelli, in genere lunghi, disposti a trecce pendenti ai lati dell’orecchio, grandi bottoni di metallo ai giubbetti e grossi anelli di rame o ferro alle dita delle mani.
Come armamentario avevano dei lunghi archibugi con cui preferivano tirare proiettili di piombo “a palla”, intagliati con delle croci sia per superstizione sia per avere un effetto più micidiale sul nemico; corte spingarde di importazione inglese, tromboni a forma di imbuto e, infine, l’immancabile pugnale con il manico di corno.
Il loro “Santo protettore” che spiccava, in atto di benedizione, sulle bandiere, era Sant’Antonio da Padova. San Gennaro, infatti, colpevole di “aver fatto il miracolo” [lo scioglimento del sangue, NdA] anche sotto l’occupazione francese, era stato prontamente rinnegato dalle Truppe in Massa, che avevano sostituito il Santo fedifrago con il più mansueto Sant’Antonio».
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