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Da Sciabolone a De Donatis: il fenomeno del brigantaggio sui Monti Gemelli

ASCOLI - La prima parte del reportage del professor Gabriele Vecchioni. Un viaggio attraverso brani dal volume escursionistico relativo a queste montagne, scritto insieme a Narciso Galiè. Costantini e il Generale dei Colli, nomi tuttora presenti nell'im­maginario col­lettivo della zona
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Nel 1861 il giornale satirico napoletano “Casaciello” pubblicò questa vignetta dalla Fortezza di Civitella il brigante risponde con uno sberleffo al Borbone che, dalla Fortezza di Messina, già caduta, gli intima di arrendersi

 

di Gabriele Vecchioni

 

«… i monti furono tosto in armi e cominciarono a formico­lare di una strana a terribile genìa di ar­mati. Han falci, o scuri, o forcine, o fu­cili da caccia per armi, han croci o Madonne per inse­gne; là si spar­pagliano per i campi, per i boschi, per i monti, qua si raccoz­zano e formano torme im­mani per assa­lire terre, castelli, città; il più ardito se ne fa capo: là un prete o un frate, qua un contadino o un sol­dato; e rubano, ammazzano, saccheggiano, incendiano senza regola e senza pietà, gettando dap­per­tutto lo spa­vento con atti di fero­cia bestiale (A. Crivellucci, 1893)».

 

Al fenomeno del brigantaggio Cronache picene ha dedicato diversi articoli. In questo, vogliamo fare il punto sul brigantaggio dei Monti Gemelli, recuperando ampi brani dal testo del capitolo ad esso dedicato nel volume escursionistico relativo a queste montagne, scritto da me e dall’amico Narciso Galiè per i tipi della benemerita casa editrice SER. Lo faremo dividendo il lavoro in due puntate.

 

La presenza dei briganti nelle grotte e nei paesi alle falde della dor­sale della Montagna dei Fiori e di quella di Campli è stata una delle caratteristi­che iden­tifica­tive dei Monti Ge­melli e delle aree limitrofe. Nomi come quello di Donato De Donatis, autonomi­natosi Ge­nerale dei Colli, di Giuseppe Co­stantini alias Sciabo­lone (nato a Santa Maria a Corte di Li­sciano, sulle pen­dici del vicino Colle San Marco) sono tuttora presenti nell’im­maginario col­lettivo degli abi­tanti della zona.

 

Un altro nome “importante”, quello del famusissimus caput bannitorum Marco Sciarra, trovò sui Gemelli (sul versante settentrionale della Montagna dei fiori, in località La Croce) l’epilogo della sua storia, ucciso a tradimento da suoi sodali (la sua storia è raccontata in un precedente articolo, leggilo qui).

 

Dal punto di vista storico, il brigantaggio locale, intendendo con esso il fe­no­meno della ribel­lione all’auto­rità e la resistenza alle prepo­tenze dell’inva­sore, iniziò con i fuoriu­sciti ascolani, ai tempi della cosiddetta “guerra so­ciale” contro Roma (I sec. AC). Alla presenza di questi “banditi”, rifugiatisi tra i boschi delle montagne limitrofe alla città si deve il rafforzamento del presidio romano ad Asculum, forse nella zona dell’attuale Borgo Solestà (per alcuni, il toponimo potrebbe derivare proprio da Sullae statio, presidio di Silla).

 

 

Se invece si restringe la vi­sione a epoche più re­centi, si può far risa­lire la na­scita del fe­nomeno a due periodi distinti. Il primo è quello relativo al bri­gantaggio cinquecentesco, legato alla situazione di disagio sociale ed econo­mico della popolazione; la seconda fase si ebbe alla fine del ‘700, come rea­zione san­gui­nosa, più o meno spontanea, di contadini e montanari alle inva­sioni delle truppe fran­cesi; esso pro­seguì, con motivazioni diverse, fino all’e­poca dell’Unità d’I­talia.
La lotta brigantesca contro i francesi si trasformò, nell’Ottocento, in quella contro i pie­montesi. Parti­colarmente efficace è il contri­buto dato ai difensori della Fortezza di Ci­vitella, ultima piazzaforte del Re­gno a resistere all’inva­sore, nonostante il Re di Na­poli si fosse arreso e la municipalità avesse ri­chie­sto l’a­desione al Regno d’Italia.

 

Al fenomeno brigantesco più recente ha dedicato una ponderosa ricerca e un volume il dottor Timoteo Galanti; la lettura di quest’opera è irrinunciabile per chi voglia occuparsi dell’assunto.
Ma torniamo alle nostre montagne.

 

Brigante del Serrone (acquerello dell’Ottocento)

La fase del brigantaggio moderno iniziò nel sec. XVIII e terminò intorno al 1870, con il declino dello Stato Pontificio (all’epoca della “breccia di Porta Pia”). Le fasi della lotta brigantesca che interessano i Monti Gemelli sono proprio queste, contro i Francesi prima e poi, nella seconda metà dell’Ottocento, come reazione agli eventi che portarono all’Unità d’Italia. La lotta fu particolarmente violenta quando il governo laico, borghese e liberale, istituì la leva militare (sconosciuta nel Regno borbonico) e impose nuove tasse, eliminando i diritti d’uso delle terre del Demanio (famoso è l’aneddoto, raccontato dal Regi in un suo volume, del carrettiere abruzzese che protestò con l’addetto del Dazio: «Quésse è lu Re de Sardegna! Ha messe le tasse pure su la…» e giù una volgarità, facilmente intuibile). Furono i contadini e i montanari le principali vittime di questa nuova politica e, sotto la guida nemmeno tanto occulta dei religiosi, insorsero in maniera sanguinosa contro gli “invasori” piemontesi e i loro sostenitori. Solo alla fine del secolo l’esercito riuscì a soffocare la rivolta.

 

 

La Fortezza di Civitella dalla Costa dell’Elce della Montagna di Campli (ph G. Vecchioni)

L’area boscosa dei Monti Gemelli (la Montagna dei Fiori, che sovrasta Ascoli, separata dalla dirimpettaia Montagna di Campli dalle strette Gole del Salinello, proprio di fronte alla Fortezza borbonica di Civitella del Tronto) e la contigua Valle Castellana (“scavata” dal Castellano, l’affluente principale del fiume Tronto, e dai suoi tributari) costituiva l’ambiente ideale per le azioni dei fuorilegge.

 

Essa ha un aspetto tormentato, con valli strette, forre profonde e grandi ban­chi di arenarie fortemente inclinati: un territorio ideale per le imboscate e una guerra di guer­riglia come quella dei banditi prima e dei briganti poi.
Le loro iniziative erano agevolate, inoltre, dalla presenza della linea di confine e, infine, come ricorda il Celani nelle sue memorie, dalla segregazione della vita civile che aveva reso difficile, in ogni tempo, il progresso, ma, al contrario, favorito la riottosità alla legge [e il brigantaggio].

 

Il disegno di D’Amore sintetizza graficamente gli scontri tra i briganti e le truppe dei bersaglieri incaricate di combatterli

Per quanto riguarda l’appoggio della popolazione a questi combattenti, ricordiamo la risposta del generale Giuseppe Covone che, interrogato alla camera dei deputati il 31 luglio 1863 sul perché le popolazioni dimostravano simpatia ai briganti, dichiarò: «I Cafoni veggono nel brigante il vindice dei torti, che la società loro infligge».

 

Prima di occuparci dei personaggi che operarono in zona, leggiamo alcune testimonianze d’epoca relativi alla lotta della quale ci stiamo occupando.
La prima è dello scrittore francese i Stendhal (pseudonimo di Henri Be­yle, 1783-1842) e riguarda le motivazioni alla base di questa attività criminosa: «Questa professione [quella del brigante, NdA] fu inizialmente esercitata da uomini che trovavano più onore­vole conser­vare in tal modo la propria indipendenza che non piegare le ginocchia davanti all’autorità pontificia. (…) Uomini dotati di una così selvaggia energia erano animati più da un sentimento di op­posizione al governo che non da una premeditata intenzione di attentare la vita o alle sostanze di pri­vati cittadini».

 

 

Le altre due citazioni sono più che altro “di colore” ma anch’esse interessanti.
Il giuramento del brigante. Essere briganti comportava l’accettazione di codici comportamentali e di valori specifici che, dopo l’Unità d’Italia del 1860, coincidevano con quelli del legittimismo borbonico. Un cronista d’eccezione, lo scrittore Marco Monnier, riporta, in un suo volume del 1862, il testo dell’impegno che ogni brigante pronunciava prima di «partire» per le spedizioni contro i pie­montesi: «Noi giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostro augustis­simo e religio­sissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre); e promettiamo di con­correre con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbe­dire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma.

 

Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione, e figlio affezionatissimo del no­stro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la di­stru­zione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati.

 

Noi promettiamo anche coll’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lu­cifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo!»

 

 

L’uniforme del brigante. Nel suo bel volume sul brigantaggio piceno, Timoteo Galanti descrive l’abbigliamento e l’armamentario tipici del brigante ottocentesco: «Gli Insorgenti, essendo una “Truppa di Massa” costituita da “Corpi Volanti“, non avevano la prerogativa di una vera e propria divisa ma vestivano alla meglio con quello che riuscivano a racimolare durante i saccheggi nelle case di famiglie benestanti: il loro abbigliamento consisteva in un giubbetto corto e pantaloni ampi di velluto o stoffa nera, un grande mantello, indispensabile per le brusche variazioni climatiche, pelli di pecora o di capra sulle spalle per ripararsi dal freddo, sandali in pelle attaccati alla gamba da alcune fasce di lana e cappello conico con nastri neri pendenti. Caratteristici erano i capelli, in genere lunghi, disposti a trecce pendenti ai lati dell’orecchio, grandi bottoni di metallo ai giubbetti e grossi anelli di rame o ferro alle dita delle mani.

Il fucile a trombone, l’arma d’ordinanza dei briganti

 

Come armamentario avevano dei lunghi archibugi con cui preferivano tirare proiettili di piombo “a palla”, intagliati con delle croci sia per superstizione sia per avere un effetto più micidiale sul nemico; corte spingarde di importazione inglese, tromboni a forma di imbuto e, infine, l’immancabile pugnale con il manico di corno.
Il loro “Santo protettore” che spiccava, in atto di benedizione, sulle bandiere, era Sant’Antonio da Padova. San Gennaro, infatti, colpevole di “aver fatto il miracolo” [lo scioglimento del sangue, NdA] anche sotto l’occupazione francese, era stato prontamente rinnegato dalle Truppe in Massa, che avevano sostituito il Santo fedifrago con il più mansueto Sant’Antonio».

 


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