di Walter Luzi
Francesco Eleuteri e Montegallo, amore senza fine. L’attore romano gioca sul titolo del suo ultimo spettacolo “Eravamo io, Annibal Caro, Dean Martin e…” e sul preannunciato cast allargato, ma, alla fine, non rompe la felice tradizione dei suoi solitari e collaudati monologhi. Neppure la sua Montegallo ed il circostante territorio montano «…là dove quattro regioni si toccano… con rispetto parlando…» possono mancare di incidere sulla sua vena ispiratrice. Zone di monti aspri spopolati dall’emigrazione in cerca di lavoro e fortuna, e gente tosta, costretta a muoversi per poter sopravvivere, anche se, come nel suo caso, qualcuno, ogni tanto, ritorna. Zone dove affondano le radici, ricerche approfondite lo confermerebbero, anche dei famosi personaggi in locandina.
E proprio sulle migrazioni di ogni epoca Eleuteri ha imbastito il suo nuovo spettacolo. Da quelle verso le Americhe e la Germania degli avi della sua famiglia, a quelle dei protagonisti di celebri poemi e leggende che si incrociano, come la storia e la mitologia, in una narrazione arricchita (a tratti, forse, anche un tantino appesantita) da dati e date, ma, comunque, ben preparata, e sempre brillante. Il teatro Filarmonici è pieno di compaesani montegallesi, che Eleuteri ha stimolato, e abituato, da quando è tornato ad abitarci, in quest’ultimo decennio, al teatro e all’autoironia. A sparlare di sé stessi, come dice lui. Manca solo il sindaco, pur caldamente invitato dall’artista romano, con il quale ha avuto qualche recente dissapore. Sarà per la prossima volta.
Perché le ricerche di Eleuteri, aiutato da alcuni suoi conterranei, parlano chiaro e sono clamorose. Il sangue di Dean Martin e di Annibal Caro, tanto per dire, pare sia proprio montegallese. Il primo per radici materne che riportano fino alla frazione Rigo di Montegallo, il secondo da progenitori emigrati dalle montagne dei Sibillini, Santa Maria in Lapide precisamente, fino al mare di Civitanova nel 1502. Qui Caro tradusse in endecasillabi sciolti l’Eneide di Publio Virgilio Marone dal latino. Il pubblico si scompiscia ai salti dialettali civitanovese/montegallese, ai cambi di look in scena, ai suoi passi sincopati di danza sulle note immortali dei brani di Dean Martin. E continua a interrogarsi, senza riuscire a svelare l’arcano, sul reale contenuto del fiasco a cui il talentuoso compaesano, di tanto in tanto, si abbevera a canna. Mentre affabula. Rivela. Istruisce.
È teatro erudito autentico il suo. Che racconta della sua infanzia e adolescenza vissuta a Pomezia, fra i discendenti dei colonizzatori dell’Agro Pontino, mescolanza ibrida di dialetti italici, di terroni e polentoni, accorsi per la bonifica di quelle terre. Pomezia ultima città ad essere fondata in epoca moderna. Non lontana da Pratica di Mare, punto di approdo di Enea, il primo profugo di guerra giunto fin qui da Troia in fiamme, come canta quell’Eneide tradotta proprio da Annibal Caro. Un cerchio che, idealmente, si chiude. Storia di una migrazione in fondo anche quella, destinata a far sorgere la città che dominerà il mondo. Enea, si narra, arrivò fin dove oggi sorge Pomezia inseguendo una scrofa gravida, mentre Romolo e Remo vennero allevati da una lupa. Animali simbolo di impudicizia postribolare crescente nella città eterna, protrattasi fino ai giorni nostri.
Sotto lo sguardo attento e competente del professor Stefano Papetti, seduto in prima fila, Eleuteri si avventura persino nel mondo dell’arte. Lo fa parlando dei progenitori di Giuseppe Sacconi, l’architetto neoclassico ed eclettico, incompreso genio progettista del Vittoriano. Eleuteri, con i suoi ricercatori storici, fra cui Giorgio Lappa, scopre che a Montalto delle Marche arrivarono proprio dal montegallese. Come lo era anche la mamma di Fulvio Bernardini, uomo di calcio famoso e stimato, che raccontò dei palloni bucati dagli intolleranti montegallesi, quando questi finivano, giocando, disgraziatamente nei loro orti. E poi nell’applaudito monologo di Francesco Eleuteri si affaccia anche padre Marco da Montegallo, meglio, frazione Fonditore, che gli diede i natali nel 1425. Fu uno dei fondatori più noti dei Monti di Pietà nelle Marche e a Vicenza, dove riposa dal 1496. Ma, evidentemente, non in pace. Lo fa tuonare dal cielo infatti, l’artista pelato dal pizzetto canuto, facendogli invocare il ritorno delle sue spoglie nella sua terra natìa.
Tornano le voci fuori campo nel finale degli annunciati co-protagonisti che mai si palesano in palcoscenico. Con Alfredo Pacione quella del fantomatico Roberto De Nero appartiene all’ascolano Milco Guerrieri. Finisce con lunghi minuti di applausi questa lunga storia di migranti che ha attraversato i millenni, cambiando, talvolta, anche il corso della Storia. Uno spettacolo che ci ha fatto ridere e sorridere. Pensare anche. E un pò vergognare in verità. Quando respingiamo in mare, da quel gigantesco molo proteso nel Mediterraneo chiamato Italia, tanti contemporanei Enea, miracolosamente scampati anche loro a guerre moderne, e a tutti gli orrori che portano con sé.
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