di Adriano Cespi
Disoccupazione impressionante, nuove povertà in continuo aumento, giovani, e non solo, costretti ad emigrare all’estero in cerca di un posto di lavoro. Non è la fotografia economico-sociale di una città del profondo Sud, ma quella di Ascoli, capoluogo di provincia marchigiano. Centro Italia. Una città profondamente colpita dal problema occupazionale (14,5% senza lavoro contro una media regionale ferma al 7,7%), con un centro storico vittima di un impoverimento generale (834 cittadini nel 2018 sono dovuti ricorrere all’emporio Caritas in cerca di beni di prima necessità) e agonizzante per la chiusura continua di attività commerciali. Se poi ci aggiungiamo la fuga, in questo ultimo decennio, delle aziende multinazionali dalla zona industriale verso altri Paesi, dove il peso delle tasse è più basso e quello della burocrazia quasi inesistente, e i danni provocati dal terremoto dell’agosto 2016 all’intero territorio, lo scenario da desolante diventa, addirittura, tragico. Eppure, in questo quadro disarmante, le aziende, quelle rimaste, continuano, nonostante tutto, a produrre ricchezza e creare posti di lavoro. Tra difficoltà finanziaria, solo ora le banche hanno riaperto le porte del credito, e lacci e lacciuoli fatti di carte e documenti da presentare, rigide scadenza da rispettare, e, ora, anche trasferimenti di competenze da sopportare. Sì proprio così, trasferimenti di competenze. Come quelle che da mesi bloccano investimenti importanti in zona industriale.
L’ALLARME DI CONFINDUSTRIA E LA LETTERA-DENUNCIA
Ma andiamo al nocciolo del problema. A causa della soppressione delle Autorità di Bacino, quelle pratiche che gli imprenditori dovevano sbrigare per nuovi insediamenti produttivi, ampliamento degli stabilimenti, insomma investimenti a fini occupazionali, sono state congelate. Bloccate. Stoppate. A causa di alcuni problemi, guarda caso, burocratici. Come la stipula della convenzione tra l’Autorità di Bacino delle Marche e il segretario generale dell’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino Centrale con cui tutte quelle competenze che prima ricadevano sulla Regione – leggi Ancona – improvvisamente sono finite al ministero dell’Ambiente, leggi Roma con un piccolo ufficio decentrato nel capoluogo dorico. E, poi, il trasferimento dell’intera macchina burocratica fatta di unità di personale e risorse strumentali e finanziarie. Mesi e mesi, dunque, all’insegna del non si sa chi decide. Senza che gli imprenditori dell’area del bacino del Tronto possano avere un interlocutore al quale rivolgersi per il disbrigo, rapido, immediato, delle pratiche. E quando un imprenditore parla di documenti, il collegamento va, in automatico, all’opportunità di nuove assunzioni. Ad ogni atto burocratico completato, infatti, corrisponde spesso l’impiego di giovani senza lavoro. Ebbene, da una lettera-denuncia firmata congiuntamente da Confindustria Centro Adriatico e Confindustria Marche e inviata, lo scorso novembre, agli assessori regionali alle Infrastrutture (Anna Casini), all’Ambiente (Angelo Sciapichetti) e all’Industria (Manuela Bora), emerge chiara questa forte criticità. Che si trasforma presto in un grido d’allarme su un vero e proprio blocco degli investimenti, aggravato, addirittura, da un potenziale rischio di fuga delle imprese.
«Questo passaggio effettivo di competenze – si legge nella nota degli Industriali – nella fase di transizione che stiamo vivendo in questi mesi, sta creando notevoli disagi e ricadute estremamente negative alle aziende che si sono ritrovate coinvolte. Le pratiche sono ferme da mesi, senza possibilità di una interlocuzione efficace e produttiva». Un preambolo per arrivare alla parte più diretta e forte della missiva, quella in cui gli Industriali sollecitano la Regione ad «intensificare ed accelerare il più possibile il lavoro di riassetto complessivo, di interloquire anche con l’Appennino Centrale sollecitandolo di prendersi in carico le pratiche e di chiudere le istruttorie che giacciono ormai da mesi per problemi non ascrivibili alle imprese». E chiosare con la descrizione drammatica della situazione: «Per tale forte criticità – conclude Confindustria – abbiamo aziende che hanno deciso di non realizzare più gli investimenti in quelle aree per mancanza di risposte in tempi certi e ragionevolmente brevi. Questa situazione, in particolare, si sta avverando nella nostra regione, per il bacino del Tronto; area, non solo definita “di crisi complessa”, per una difficoltà di ripresa economica sistemica, ma anche una zona colpita ampiamente dagli eventi sismici del 2016 e seguenti. Questo significa che le aziende che si stanno lentamente muovendo e stanno provando ad investire, tra le molte difficoltà, si trovano impantanate in una ordinaria situazione di impasse burocratico-amministrativo italiano».
Insomma, è naturale che quando Confindustria parla di mancati investimenti si riferisce ad imprenditori e aziende intenzionati ad espandere i propri stabilimenti, ma bloccati dalle tante mancate risposte. Risposte sulle aree interessate da questo o quel vincolo idrogeologico ricadente in questa o quell’area adiacente il fiume Tronto. Dove insistono veri e propri divieti a costruire per via dei rischi esondazione e frane, evidenziati col temine moderato, medio, elevato e molto elevato. Tabelle che determinano luoghi dove poter operare e dove, invece, no. E dalle quali dipendono anche opportunità di sviluppo per le aziende e d’impiego per i disoccupati. Soprattutto se si pensa che, per diminuire il rischio di esondazione del Tronto, attraverso la realizzazione di argini o barriere protettive, ad intervenire devono essere proprio questi enti: le Autorità di bacino. Con opere necessarie alla messa in sicurezza delle aree a ridosso delle attività produttive e indispensabili per il ridimensionamento dei rischi e, quindi, per la riduzione delle spese a carico delle aziende. Meno pericoli ci sono, minori vincoli insistono sul territorio e meno spese devono sostenere gli imprenditori nell’intervento di ampliamento dello stabilimento.