di Franco De Marco
Casa Antonia ad Ascoli e Casa Irene a San Benedetto: qui si ricostruisce la dignità, e il diritto, di giovani donne costrette a prostituirsi per sopravvivere. Donne coraggiose, provenienti da Nigeria, Somalia, Libia, Ucraina e altri paesi, alcune richiedenti asilo, che sbarcate in Italia sono finite in mano agli aguzzini che gestiscono la prostituzione. Donne coraggiose che hanno chiesto aiuto e l’hanno trovato in queste due case non solo di accoglienza ma anche, anzi soprattutto, capaci di insegnare un lavoro e di metterle nelle condizioni per vivere dignitosamente con questo lavoro. Casa Antonia, oggi con 8 ospiti, e Casa Irene, 7 ospiti, sono gestite, addirittura dal 1949, dalle Suore Oblate del Santissimo Redentore le quali hanno ottenuto dalla Fondazione Carisap, con l’approvazione di un progetto specifico seguito ad un altro con positivo esito, un contributo di 120.000 euro (più altri 30.000 euro di cofinanziamento proprio).
“Laboratorio di frontiera 2.0” si propone di costituire e sviluppare una cooperativa sociale finalizzata all’inclusione socio-lavorativa di donne “che vivono fuori dal riconoscimento della dignità di persona”. E punta alla valorizzazione sociale attraverso formazione, esperienza concreta di lavoro e creazione di impresa. Queste donne, che hanno vissuto sulla propria pelle esperienze terribili, hanno la possibilità di diventare autonome e di non dover più dipendere da qualcuno. Il progetto è stato illustrato, nei locali della Bottega del Terzo Settore, da suor Charo, originaria delle Isole Canarie, coordinatrice generale delle due comunità, dalle suore Angela e Teresina, dagli operatori Francesca Mozzoni e Amedeo Angelozzi e da Paula Amadio della cooperativa Ama Aquilone, principale partner del progetto insieme ad altri venti organismi.
Il lavoro, certamente molto difficile, delle due case di accoglienza, ha già portato a risultati molto postivi. Una donna albanese, ad esempio, che già nel suo paese lavorava nel settore dell’abbigliamento, si è ulteriormente formata ed ha trovato un contratto “normale” in un’azienda tessile. Un’altra si è sposata e oggi vive vendendo prodotti di artigianato. «Il nostro obiettivo, – afferma suor Charo – non è solo fare formazione ma creare una cooperativa sociale, ovvero uno strumento per dare autonomia e in grado di camminare da solo. Alle donne che ospitiamo insegniamo un lavoro, come si va sul mercato, come si vende, come si fa marketing, attraverso il contatto con alcuni professionisti. Molte vanno anche frequentano le scuole, che sono nostri partner».
«Noi – fa notare Paula Amadio – offriamo a chiunque le prestazioni di un’agenzia del lavoro, accreditata dalla Regione, dal carattere naturalmente sociale». In quali campi di lavoro vengono avviate le donne? «Artigianato, agricoltura, tessile, abbigliamento. Insegniamo ad esempio ad usare la macchina da cucire o a coltivare e raccogliere la lavanda. Prodotti che poi possono essere immessi nel commercio solidale».
Insomma, salvataggio da una situazione di schiavitù, formazione e possibilità di una esperienza di lavoro concreto. «Ci sono donne che quando arrivano da noi, dopo la dolorosa esperienza della prostituzione, -fa notare Amedeo Angelozzi – non hanno nemmeno idea che cosa sia un lavoro in Italia. Magari in Africa svolgevano attività da noi impensabili».
“Laboratorio di frontiera 2.0” si pone di attuare un cambiamento molto sfidante non solo legato al miglioramento delle condizioni di vita delle donne ma soprattutto dare loro la possibilità di ricostruirsi un progetto di vita attraverso l’inserimento concreto nel mondo del lavoro. Come arrivano queste ragazze a Casa Antonia o Casa Irene? Attraverso le segnalazioni della Prefettura o di un telefono nazionale di soccorso. Spesso si decide di trasferirle in località lontane rispetto a quelle in cui erano costrette a prostituirsi per evitare la reazione del racket.
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