di Luca Capponi
Tra Scola e Sorrentino, tra la fisica generale e il palco. Tra il sommo poeta e un progetto artistico innovativo, unico, ambizioso. Aggettivi che definiscono al meglio quanto sta realizzando Giorgio Colangeli a Grottammare: una lettura definita e definitiva della Divina Commedia spalmata nelle tre edizioni di un progetto artistico dedicato prima all’Inferno, poi al Purgatorio e, da lunedì scorso, al Paradiso. Una settimana intera al Teatro dell’Arancio (fino a sabato 3 febbraio, alle 21,30, ingresso libero) per l’attore romano classe 1949, una garanzia a livello interpretativo, e non solo per il palmares che comprende, tra gli altri, David di Donatello e Nastri d’Argento, ma anche per la duttilità, la puntualità, il tocco. E per i tanti film pregevoli, le fiction, le imprese sul palco. Proprio come questa dedicata a Dante Alighieri. «Per me si tratta di una cosa preziosa, al momento Grottammare è il solo posto dove sto eseguendo integralmente la Divina Commedia, che a mia memoria non è mai stata portata così davanti a un pubblico» spiega Colangeli. «Ho cominciato a relazionarmi con l’opera tanti anni fa, senza pensare a un esito professionale, era un esercizio da cultore, poi mi sono appassionato mano a mano che andavo avanti. Appena ho realizzato di essere un po’ più sicuro di me ho iniziato a proporlo in situazioni non troppo esposte. Adesso, invece, sto pensando anche qualcosa di più grande, l’esperimento di Grottammare in tal senso è stato fondamentale, ho capito che lo spettacolo può interessare ed appassionare». Il Nostro è vicino alla realtà picena dai tempi di un film di culto come “20 sigarette” di Aureliano Amadei, uscito nel 2006, stagione in cui conobbe Lucilio Santoni, direttore artistico del progetto. «Con lui ci siamo intesi subito senza alcun senza programma preciso e piano piano, per merito suo, è nata l’idea di portare in scena Dante ma non solo: tante iniziative nuove ne sono derivate e tante ne arriveranno, si tratta di una collaborazione molto feconda».
Dubbi su Alighieri, invece, non ce ne sono mai stati. «Si tratta di un poeta identitario, uno dei primi ad aver iniziato a parlare di Italia quando ancora non c’era nulla, nonché il primo a disegnare un’ipotesi nazionale e poi ancorarla a un fatto culturale come la lingua. -continua- Dante lo chiamiamo per nome nonostante la scuola ne faccia un monumento inarrivabile, è l’unico con cui abbiamo un rapporto familiare anche se poi non lo conosciamo bene perché questo farne un mito lo ha un po’ allontanato. Potenzialmente però siamo tutti suoi figli, è un poeta popolare, ha un forte afflato pedagogico, didattico, vuole condividere le sue emozioni, è proteso fortemente verso chi legge e questo ne fa appunto un popolare per elezione. Non è neanche difficile da capire, e la sfida che propongo sta proprio qui: la sua lingua si affida a un magistero poetico e non ha bisogno di essere compresa parola per parola perché parla in un altro modo».
Non molti lo sanno, ma l’attore de “L’attesa”, “Braccialetti rossi” e “Il divo” è laureato niente meno che in fisica generale. Interessante capire il passaggio avvenuto tra tale disciplina e…il palcoscenico. «Dante sicuramente ha aiutato, questo passaggio forse parla dell’aspirazione a una specie di unità del sapere, all’epoca del poeta infatti si considerava il sapere come qualcosa di organico. -va avanti Colangeli- Oggi i saperi sono talmente specialistici che fare questa sintesi è praticamente impossibile, anche se c’è questo desiderio in me; l’idea che il poeta possa essere anche scienziato e viceversa continua ad affascinarmi, come un’utopia che fornisce le direzioni giuste nella vita. Magari non è vero ma pensarlo e fantasticarlo fa bene all’anima».
Al cinema, Colangeli ha lavorato con gente del calibro di Giordana, Vicari, Scola, Sorrentino, Genovese. Ma anche in tantissime opere prime. «Potrei anche sottrarmi invece la cosa mi pace molto, diciamo che è una scelta passiva specie ma in realtà mi va molto a genio mettermi in discussione, cercare la pepita d’oro. Poi non posso dimenticare che la mia carriera ha avuto una svolta definitiva verso la visibilità e il successo proprio grazie a un’opera prima (“L’aria salata” di Alessandro Angelini, del 2006), quindi continuo a battere quella strada, i bravi registi esordienti ci sono, basta cercarli».
Su due monumenti della settima arte, infine, verte l’ultimo intervento: Ettore Scola, con cui lavorò ai tempi de “La cena” (1998), “Concorrenza sleale” (2001) e “Gente di Roma” (2003), e Paolo Sorrentino, con cui ha girato “L’amico di famiglia” (2006) e “Il divo” (2008).
«Si tratta di due maestri, ammiro per diversi motivi sia uno che l’altro. -conclude l’attore- Di Scola ho un ricordo quasi filiale, era una persona di grande umanità e disponibilità, che tendeva subito a fare famiglia. Bastava fare una cosa con lui che poi si ricordava, ti richiamava sempre, quasi a istituzionalizzare il rapporto di lavoro, fatto che quando non è dettato da interessi rappresenta una vera una ricchezza, creando intese di lunga durata sempre proficue. Con Sorrentino il rapporto è stato più defilato, lui non concede molto oltre il lavoro e sul set è austero, oltretutto quando gira fiancheggia molto il direttore della fotografia Luca Bigazzi, ed è molto preso dai movimenti di macchina e dal lato tecnico e meno, per quanto mi riguarda, dal trattamento dell’attore, per cui credo sia difficile entrare in intimità con lui, che resta un comunque grandissimo».
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