di Walter Luzi
Una manifestazione che ha fatto scuola. Professionalità e passione al servizio del territorio montano. Per farne conoscere, scoprire, la bellezza e le tante storie. Dieci anni di ricordi ed emozioni dei protagonisti. Le speranze e gli auspici per il futuro. L’importanza di andare avanti.
Il Festival dell’Appennino parte nel 2011. Da allora ne ha fatta di strada. In tutti i sensi. Ha portato sulle montagne del nostro Appenino, a cavallo di quattro regioni, decine di migliaia di persone. Appassionati e neofiti, vecchi e giovani, sportivi e pantofolai pentiti. Far conoscere le bellezze naturali, i paesi e le mille storie delle nostre montagne era una missione importante, preziosa già prima del terremoto. Dopo è diventata vitale.
«Intenzioni comuni bollivano all’insaputa gli uni degli altri -ricorda Carlo Lanciotti, direttore artistico del Festival da sempre-. Portai un mio progetto all’attenzione dell’allora assessore provinciale alla cultura e ambiente Andrea Antonini, appena insediato. Gli avevo dato il titolo provvisorio di Piceno Trekking Festival e pensavo di coinvolgere tutto il Piceno fino al mare. Fu il presidente, Piero Celani, a indirizzarci, a puntare tutta l’attenzione sull’entroterra. Per far conoscere meglio al grande pubblico gli angoli più belli e sconosciuti delle nostre zone montane».
Con la sua Compagnia dei Folli collabora alle prime edizioni anche la maceratese Arte Nomade di Maurizio Serafini e Luciano Monceri. Quelli del Montelago Celtic Festival. Un biglietto da visita che parla da solo. Appassionati di cammini, tracceranno e mapperanno poi anche il cammino Francescano della Marca da Assisi ad Ascoli.
Le edizioni. Sarebbe la decima. In realtà sono undici per via di due edizioni straordinarie invernali da aggiungere e un anno, il bisesto e nefasto 2016, da sottrarre al conto perché saltato a piè pari. Quando si stava già lavorando all’edizione autunnale arrivò la nuova forte scossa di ottobre a far saltare tutto. Da 10 a 14 eventi per ogni edizione. Da 6 a 10 i chilometri di cammino in programma ogni volta. Da 150 a 600 i partenti. Quattro gatti mai. Fatevi da soli i conti. Questo è il Festival dell’Appennino.
«Detto sinceramente non ne vorremmo di più -sottolinea Mauro Orsini, braccio destro di Carlo Lanciotti nella Compagnia dei Folli- il numero giusto di partecipanti è questo quando vai a muoverti in ambienti così delicati. In troppi diventa una sofferenza anche per il luogo che ti ospita». Un’etica rigorosa, improntata al profondo rispetto dei luoghi e di chi li popola, della quale parleremo ancora.
I sempre presenti. Carlo Lanciotti alla direzione artistica. Anima sensibile e pragmatica. Spirito elevato, ma piedi sempre ben piantati per terra. Idee, visioni e progetti puntualmente filtrati, con occhio lucido, dai parametri della fattibilità e della sicurezza. La Compagnia dei Folli, la sua creatura. Una officina di suggestioni, un laboratorio artistico in perenne fermento, che non si è mai adagiato sui tanti allori, su una fama planetaria che ha saputo conquistarsi in quasi quarant’anni di frenetica attività. Fuoco e trampoli. Sospesi nell’aria o vestiti di luce i Folli incantano sempre. Grandi e piccoli.
Mauro Orsini e Lara Ciaffardoni preziosi, insostituibili, versatili nella Compagnia e nel Festival, sempre pronti, sempre disponibili a coprire ogni esigenza, tecnica o artistica.
Il Bim che sta per Bacino Imbrifero Montano, puntuale ogni volta con il sostegno, concreto, entusiastico, del suo presidente Luigi Contisciani.
Tito Ciarma e Niko Orsini, le esperte guide alpine che hanno scritto la storia, e garantito la sicurezza in ogni condizione, del Festival. Patrizia Gagliardi, guida di media montagna anche lei con l’Agae, ma sempre disponibile a ogni compito. Umiltà, generosità ed efficienza fatte persona.
I soldi. Nelle prime edizioni ce li ha messi in massima parte la Provincia di Ascoli. Dopo la sua uscita di scena sono stati due bandi di finanziamento regionali a salvare, economicamente, la manifestazione. Il Bim come detto, invece, non si è mai tirato indietro, grazie all’impegno di Contisciani. Nel 2014 nasce Appenino Up, soggetto unico di riferimento per l’organizzazione dell’evento. Negli ultimi quattro anni i denari ce li ha messi invece la benemerita Fondazione Cassa di Risparmio. Un impegno che sa di Divina Provvidenza. Alziamoci in piedi e facciamogli un applauso. Se lo merita. Soprattutto se continuerà in questo sostegno anche negli anni a venire. Ce ne sarà sempre più bisogno.
Le location. In alcune si torna. Di novità si cerca di aggiungerne ogni anno. Ma non decide solo la bellezza del posto. Più spesso le condizioni di sicurezza, di praticità, che garantisce. «In certi posti -prosegue Lanciotti- non puoi portare trecento persone perché si deve sempre garantire il soccorso in caso di emergenza. E con i partecipanti di ogni livello di preparazione, e di età, che vengono con noi, dobbiamo essere sempre pronti a tutto. Solitamente coinvolgiamo i Comuni che qualche volta delegano le Pro Loco. Solitamente più determinate e motivate. Si individuano insieme le migliori location e i percorsi più adatti. La pandemia ha cancellato l’accoglienza, i rituali punti di ristoro a prezzi stracciati dove si potevano assaggiare le prelibatezze locali. Fa piacere che associazioni nate con e per il Festival dell’Appennino hanno poi continuato ad operare con successo sul territorio. Come gli Amici di Forcella. Lembo estremo del comune di Roccafluvione proteso verso l’Acquasantano».
«Qualche volta -continua sempre Lanciotti- abbiamo messo pace, per l’occasione, a dispute private. Più spesso dobbiamo fare i conti con il campanilismo fra paesi, o frazioni. Gelosie su presunte preferenze che fanno anche piacere. Evidentemente rende il prestigio di poter ospitare questa manifestazione così contesa. Quest’anno poi anche le misure di distanziamento anti-covid ci hanno complicato ulteriormente le cose».
I partecipanti. «Galassia variegata di ogni età. Vengono soprattutto quelli a cui la montagna piace – prosegue Carlo – ma vogliono andarci in sicurezza, guidati e assistiti in caso di necessità. Quelli che non ci vanno a scadenze regolari, fisse, che non sono patiti, frequentatori assidui, ma che la apprezzano, molto, anche così. Respirandola con calma, soffermandosi spesso sui panorami. Anche a causa del persistente fiatone. E che apprezza, ancora di più, i momenti di intrattenimento, gli spettacoli, che poi sono una costante fissa delle nostre escursioni».
Gli spettacoli. La performance artistica non manca mai al Festival dell’Appennino. Musica classica, lirica, contemporanea, popolare soprattutto. Quella che ha maggior successo, perché legata al territorio, alle storie del posto. Che ti fa sentire ancor più parte integrante di quell’angolo di mondo. Sonorità che sono incise nel dna della nostra anima, che arrivano più facilmente al cuore in quel contesto, che ha visto nascere quelle note e quei testi. Zigatrio, Fagiani, Trainanà, Roberto Lucanero, La Macina, Li Randerchitte. A proposito di musica popolare.
«In uno dei prossimi appuntamenti -annuncia sempre Lanciotti- dedicheremo un evento, fuori programma, alla memoria del maestro Fabio Zeppilli con una reunion di tutte le sue band. Nell’occasione il professor Mario Polìa presenterà una raccolta di ballate e sonetti dell’ascolano che proprio il popolare maestro Zeppilli gli aveva, in gran numero, segnalato. E poi le performances di arti circensi e teatro di strada, le rievocazioni di leggende e vecchie storie della zona».
La risposta degli abitanti. Bussate e vi verrà aperto. La filosofia è quella. «Abbiamo sempre avuto -spiega Mauro Orsini- la buona abitudine di coinvolgere le popolazioni del posto prima di stilare il programma. Lo spirito della manifestazione non è quello di invadere, conquistare, colonizzare. Andare in montagna significa, per noi, principalmente confrontarsi con le persone che ci abitano. Quello che trovi diventerà una risorsa per l’evento. L’operazione è semplice: andare a vedere quello che c’è sui luoghi, riportarlo alla luce, teatralizzare le vecchie storie dargli nuova linfa. Da un sasso gettato in uno stagno nascono mille cose. Sarebbe poi insensato, e anche ingiusto, decidere per loro, a casa loro. Noi arriviamo una volta l’anno, loro ci stanno da una vita. E devo dire che questo nostro approccio, che altro non è che una forma di dovuto rispetto, è molto apprezzata. Se siamo rimasti in ottimi rapporti con tutte le Pro Loco, le amministrazioni locali un motivo ci sarà. Molti ci sono rimasti amici, ci seguono sui social, ci mandano messaggi a distanza di anni».
«Il nostro rispetto -continua Mauro Orsini- investe i luoghi prima delle persone. L’ambiente prima che dei residenti. I luoghi dell’entroterra stavano morendo prima. Il sisma ha dato loro un’altra mazzata, accelerando il processo di spopolamento. Uno dei meriti del Festival è quello di riportare l’attenzione su questi luoghi dimenticati. Anzi, la bellezza sconvolgente di certi posti è stata una bella sorpresa, una scoperta, principalmente per noi».
Le storie, i luoghi, le emozioni. Il Festival fonte di ispirazioni. A Casale Vecchio, frazione di Montegallo, una storia che risale agli anni Trenta, riportata alla luce da uno spettacolo della Compagnia dei Folli durante una tappa del Festival dell’Appennino, ha ispirato anche un bel romanzo (“Un giorno capirai”) del brillante giornalista e scrittore ascolano Luca Capponi. I paesani, tutti raccolti in preghiera a casa di una bimba morta, si salvano per questo motivo da una valanga che seppellisce tutto il paese tranne quella casa. La veglia funebre della piccola salma di una innocente salva tutti. Fra i ruderi di Casale, che ospita lo spettacolo dei Folli, ci sono anche i discendenti di quei miracolati. In lacrime. Ma l’emozione è forte per tutti.
Laturo, terra di confine fra Marche e Abruzzo, comune di Valle Castellana, sopra Settecerri, paese abbandonato senza strade che ci arrivano. Solo sentieri, e una mulattiera così ripida che anche le jeep hanno bisogno del verricello per salire. Altra operazione di recupero della Memoria. Torna a rivivere, grazie al Festival dell’Appennino, il rifugio sicuro per i briganti che fu. Riportato alla luce grazie ad un anconetano e alla sua associazione, riaffiora dai rovi e dalle erbacce un posto magico inghiottito dall’oblìo. «Abbiamo ricreato anche i suoni di un affollato mercato -ricorda Mauro- che era molto veristico con la folla dei partecipanti all’escursione che hanno riempito le viuzze del paese». Rivive anche la storia di Laura, la donnina nubile del paese, che, generosamente, concedeva le sue grazie. Un’altra magia dei Folli.
Come nella loro Castel Trosino. La rievocazione sui Longobardi li riporta a casa, alle origini, dove iniziò il loro lungo cammino artistico. Il testo teatrale di Marco Salvator, le suggestioni della Compagnia dei Folli, il supporto prestigioso dei Fortebraccio Veregrense, specialisti in storia longobarda scrivono un’altra pagina epica del Festival dell’Appennino. Amore e odio, battaglia e festa.
I ricordi. Capodacqua prima e dopo. 2013, record di adesioni. Partenza da Forca Canapine per i pantani con arrivo a Capodacqua. Discesa impegnativa che mette a dura prova gambe e ginocchia. Ne vale la pena, nonostante le apprensioni delle guide per tutta quella gente. In paese li aspetta una street band, percussioni e fiati, che inizia la performance distribuita sui balconi in legno delle case e la finisce in parata per la via centrale del paese seguita da tutti i partecipanti all’escursione. Cinque ore di cammino non sono bastati a fiaccarli. L’adrenalina più forte dell’acido lattico, la suggestione della stanchezza. Assistono gli anziani alla gigantesca processione in musica seduti davanti alle case appoggiati ai lori bastoni. Increduli, sbigottiti, emozionati. Che giornata. Mai vista così tanta gente a Capodacqua. Che è rimasta nel cuore di tutti anche dopo la tragedia.
«Tutti ubriachi quella sera -ricorda Carlo Lanciotti- senza accorgercene. Merito degli zuccherini più che del tradizionale giro delle cantine con assaggio obbligatorio. I zuccherini inzuppati di vino e distillati furono il colpo di grazia. Uno dopo l’altro resero fuori range il valore del tasso alcolico di quasi tutti noi. Una sorta di rito della santa comunione con lo zuccherino intriso al posto dell’ostia. Uno zuccherino per ogni casa. E le case erano tante. Prima del gran finale nella cantina sociale».
2017 anno primo dopo sisma. Il ritorno a Capodacqua. Quasi un rito di riappacificazione con la Natura. Emozione palpabile. Tanta gente anche stavolta, ma, stavolta, non è la festa di quattro anni prima. Cammino da Forca di Presta fino al Belvedere. Un affaccio mozzafiato sulla vallata ferita. I Vigili del Fuoco portano fin lassù le campane recuperate nell’arquatano dalle macerie del terremoto. Sono appese sui mezzi ad apposite travature in legno.
L’intervento artistico lo fa il gruppo De Santis-Corinaldi montatori, restauratori e suonatori di campane, ma è il prologo a dare i brividi. Rintocca per prima la campana di Capodacqua. Lutti e dolori sono ancora freschi. Il ricordo vivo. Commozione e lacrime vengono ricacciate fuori dal groppo nelle gole di tutti i presenti. Arriva Sabrina Di Cesare a far suonare ancora quella campana. La scelta non è casuale. Il suo gesto è carico di emozione, di significati. E di speranza.
Il futuro del Festival dell’Appennino. «Negli ultimi anni siamo stati imitati da tanti -conclude Carlo- dall’Abruzzo alla Romagna. Da un lato fa piacere. Noi non siamo gelosi di nessuno. Se ci imitano significa che abbiamo lavorato bene. Sottolineiamo solo un aspetto: in queste iniziative andrebbero evitati l’improvvisazione, il pressapochismo, il dilettantismo. Soprattutto delle figure chiave: le guide e i direttori artistici. E’ già difficile organizzare un evento culturale in uno spazio adeguato, un teatro, una piazza, ma quando devi farlo in un bosco, in una gola o su un prato, magari a 1.500 metri di quota, bisognerebbe avvicinarsi con maggiori consapevolezza e competenza».
Il futuro è davvero un’incognita. «La speranza e l’auspicio è che la manifestazione possa andare avanti -aggiunge Orsini- con o senza di noi. I cambiamenti ci possono anche stare, purché si prosegua su questa strada. Soprattutto con lo stesso spirito con cui è nata. La formula potrebbe essere un po’ più affinata. Anche per distinguersi, con un rinnovamento, dai troppi tentativi di imitazione».
E per il nostro Appennino? Quale futuro? «Lo sostengono tutti gli urbanisti -concordano in coro i Folli- il futuro è il ritorno ai paesi spopolati. Lontano da folla, smog, inquinamento e stress. Solo che Stato ed Enti Locali devono investire per potenziare i servizi. Scuola, trasporti, sanità, negozi, e, soprattutto, posti di lavoro. E’ per l’assenza di tutto questo che la gente scappa da quassù. Ad Arquata hanno regalato una scuola bellissima, moderna, funzionale, ecologica. Un motivo valido per convincere tanti a restare. Lo smart working è una risorsa da sfruttare. Ma posso lavorare da casa, anche da qui, solo se ho una buona connessione».
Il collegamento alla rete. Un servizio irrinunciabile oggi. Anche per il turista, l’escursionista. La realtà, piaccia o non piaccia, è questa. Una meta di villeggiatura la scelgo tenendo in conto tre fattori: la bellezza, il costo e i servizi.
E, quasi sempre, la differenza la fanno proprio i servizi.
Festival dell’Appennino a quota 9 La bellezza della montagna batte il Covid
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