di Gabriele Vecchioni
Percorrendo i sentieri della Montagna dei Fiori ci si accorge che oltre ai paesaggi, ai boschi, alle splendide fioriture e, se si è fortunati, agli animali selvatici, c’è un avvicinamento frequente ai resti delle attività antropiche, opere che hanno, in parte, modellato il territorio e aiutato il lavoro dell’uomo.
La Montagna dei Fiori e la dirimpettaia Montagna di Campli (i Monti Gemelli) costituiscono una tessera del mosaico di ambienti che compongono il Parco Nazionale Gran Sasso-Monti della Laga. In questo articolo, dopo una corposa “introduzione” all’ambiente del rilievo (una bellissima montagna, legata alla storia antica e moderna della città), sarà approfondito uno degli aspetti peculiari del territorio, quello relativo all’economia pastorale.
Il rilievo. «Ma d’improvviso, al Porto d’Ascoli, in una insenatura delle colline modeste, appare la montagna grande. Cilestrina, aerea, nivale, confusa con le nuvole fulgide, mi rapisce con la sua altezza taciturna». Così, nel Notturno (1921), Gabriele D’Annunzio descriveva, con poche ma incisive parole, la Montagna dei Fiori, sul filo della memoria («Tutto rivedo») di un viaggio in treno verso Pescara.
Il piccolo gruppo calcareo dei Monti Gemelli si eleva al confine tra le Marche e l’Abruzzo, compreso, per la maggior parte della sua estensione, nei limiti del Parco Nazionale Gran Sasso-Laga. Il soprannome di Monti Gemelli deriva dalla somiglianza morfologica e strutturale delle due montagne e dal fatto che esse appaiono della stessa altezza, per il fenomeno di parallasse, in modo particolare se viste dal territorio teramano.
La dorsale presenta una forma ellittica, è lunga circa sedici chilometri ed è ben distinta dai rilievi arenacei della Laga e dalla fascia delle basse colline del Teramano. Il rilievo maggiore è la Montagna dei Fiori, altura dal profilo elegante che domina la città di Ascoli; il nome evoca le splendide antèsi primaverili ed estive. Una breve “parentesi” relativa alle fioriture della Montagna dei Fiori («Nomina sunt consequentia rerum», scrisse Giustiniano): particolarmente belle le fioriture di narciso dei poeti all’imbocco del Fosso Il Vallone, insieme alla rara fritillaria dell’Orsini, una liliacea dal bellissimo fiore “a scacchi”.
Il piccolo massiccio è costituito da rocce carbonatiche di origine organica, formatesi in ambiente marino per accumulo di detriti e resti organici; il fenomeno che lo contraddistingue è il carsismo: le rocce calcaree dei Gemelli sono enormi serbatoi idrici che scaricano le eccedenze con una scarsa circolazione superficiale ma con una notevole attività sotterranea. Le manifestazioni di superficie del carsismo si estrinsecano in una fitta rete di incisioni e con la presenza, poco sotto la vetta della Montagna dei Fiori, di un inghiottitoio, nelle vicinanze della dolina che ha dato origine a un bacino idrico (1.625 metri), dove vive il tritone crestato.
L’ambiente. Sulla Montagna dei Fiori (e sulla “gemella” di Campli) ci sono estesi boschi di faggio, un’essenza arborea che domina, qui come in altre zone appenniniche, la fascia fitoclimatica compresa tra i 1.100 e i 1.800 metri, limite altimetrico del bosco, governato a ceduo. Ampi spazi del rilievo sono pascoli d’altitudine, costituiti da graminacee e spesso biocenòsi di sostituzione, ricavate da aree occupate in origine dal bosco.
La pastorizia. L’allevamento degli ovini ha costituito la principale attività economica svolta nell’area montana. La particolare morfologia del territorio ha imposto condizioni seminomadi di lavoro: la casa di abitazione nei borghi alle pendici della montagna e una serie di ricoveri temporanei alle quote più elevate, da utilizzare nel corso dell’estate.
Non è possibile, per ragioni di spazio, approfondire il tema dell’importanza delle attività pastorali per l’economia locale. Ricordiamo solo che, nonostante la rilevanza che essa aveva nella romanità (basti pensare che, in latino, il termine utilizzato per il “denaro”, pecunia, deriva da pecus, pecora), è nel tardo Medioevo che l’allevamento degli ovini assume le caratteristiche e l’importanza che lo hanno caratterizzato fino all’inizio del Novecento e, in alcune zone, fino ad alcuni decenni fa. La morfologia delle montagne abruzzesi (e la Montagna dei Fiori in larga parte lo è) e la loro natura carsica non hanno permesso, per secoli, altra risorsa oltre a quella dell’allevamento, affidato a personale specializzato.
Transumanza e monticazione. All’inizio dell’autunno, i pastori abruzzesi lasciavano i magri pascoli della montagna per raggiungere la costa adriatica e arrivare in Puglia a svernare; a primavera, risalivano verso i monti percorrendo a ritroso le vie seguite all’andata. Era una forma di allevamento nomade analoga a quella che veniva effettuata sulle Alpi; le distanze da percorrere erano però enormemente maggiori perché, a differenza della monticazione alpina (il cosiddetto “alpeggio”), sugli Appennini il nomadismo era “orizzontale”.
Nell’area dei Sibillini, la transumanza veniva effettuata verso la costa tirrenica. Il motivo lo chiarisce Olimpia Gobbi (1994): «… già a metà Cinquecento le greggi dei Sibillini non possono più transumare nelle valli picene, ormai chiuse al loro passaggio dai campi, e debbono invertire i loro percorsi verso le Maremme toscane e laziali». Dall’area della Montagna dei Fiori si effettuava una transumanza “ridotta”: fino agli anni ’60-’70 del Novecento i pastori portavano le greggi – non particolarmente numerose – a svernare alla Sentina, sulla costa adriatica.
In un suo testo (Guida al Piceno. Civiltà e Territorio, 1994), Bruno Egidi aveva definito con chiarezza la situazione agropastorale nell’area. Scriveva infatti: «Tra Ottocento e Novecento, nella spiccata caratterizzazione economica di tipo agricolo, si impone il prevalere dei seminativi nella fascia collinare e della pastorizia in quella montana. Qui l’allevamento ovino avviene secondo lo schema della transumanza in direzione tirrenica, verso la campagna romana e la Maremma, ma anche adriatica. Le greggi seguono sentieri abituali che, se non hanno i caratteri dei tratturi del vicino Abruzzo, rappresentano percorsi ripetuti dai mandriani, dalle loro famiglie, dai migranti stagionali».
Memorie pastorali e di economia montana. Nel comprensorio rimangono tracce delle attività agrosilvopastorali, ormai marginali; in particolare: campi terrazzati, spianati dopo un paziente e faticoso lavoro di spietramento e sostenuti da muretti in pietra, realizzati senza usare materiale legante; capanne in pietra a secco, spesso denominate con la voce dialettale caciare, punti di appoggio temporaneo per i conduttori di greggi al pascolo; costruzioni ipogee (le tane), utilizzate come depositi di attrezzi agricoli; piazzole, ormai abbandonate, per la preparazione delle carbonaie, accese per la produzione di carbone; neviere, utilizzate per la conservazione della neve pressata, costruite adattando depressioni del terreno, a volte delimitate da muratura a secco (articolo precedente, leggilo qui).
Le capanne in pietra a secco sono l’elemento identificativo della Montagna dei Fiori; questi straordinari artefatti saranno l’argomento di un prossimo articolo.
Il termine tecnico per definirle chiarisce il sistema di costruzione e il materiale usato; esse sono state innalzate sfruttando una serie concomitante di condizioni: la facile reperibilità in loco di materiale calcareo affiorante – sia pure di qualità non eccelsa, legato alle operazioni di spietramento per il miglioramento fondiario, utilizzazione del sistema della falsa cupola (o trilitico), imitazione dell’esempio costruttivo pugliese, imparato nel corso della pratica della transumanza.
Il nome e la forma. Il termine greco tholos deriva dalla voce indoeuropea dol, che designava un edificio “curvo”. L’ispirazione, probabilmente, venne all’ignoto costruttore dal primo riparo dell’uomo, la caverna, tanto che qualcuno ha definito queste realizzazioni “caverne artificiali”. Dall’osservazione della cavità ipogea è venuta quindi l’idea della capanna a tholos, tramandata poi dall’uso e dalla preferenza accordata alla pietra come materiale da costruzione e al volume curvo rispetto a quello angolato.
Altri nomi, oltre a quello già ricordato, prettamente locale, di caciare, sono casali (da casula, casetta), capanne trulliformi (che richiama i trulli pugliesi), capanne a strobilo (quelle ogivali assomigliano alla cosiddetta “pigna”, il frutto delle conifere).
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