di Gabriele Vecchioni
foto di Franco Laganà
Il territorio del comprensorio rurale di Ascoli Piceno è ricco di edifici affrescati, spesso poco conosciuti; sono costruzioni dall’architettura semplice all’esterno, ma decorate, internamente, con affreschi realizzati da mani sapienti. Spesso, sono inseriti in un piacevole contesto appenninico, tra boschi e radure, o isolati su morbidi rilievi che dominano il mosaico dei campi coltivati, manifestandosi nel paesaggio all’improvviso, come un premio epifanico per l’escursionista.
Lo scenario della città di Ascoli a settentrione è dominato dall’Ascensione, un rilievo legato in maniera inscindibile alla storia cittadina e del territorio e della quale conserva vestigia importanti. Sulle pendici del monte rivolte verso nord, un piccolo gioiello “segreto” aspetta il visitatore attento: la chiesa-oratorio di Santa Maria del Verdente, nel circondario del comune di Rotella.
Per arrivare al Verdente si segue la strada provinciale per Castignano fino al bivio per Rotella, in località San Martino, da dove si continua, a sinistra, fino alle indicazioni relative; per la visita all’interno, occorre informarsi presso la sede comunale rotellese.
Si tratta di una costruzione molto antica, le cui origini si fanno risalire al secolo XI, ma che ha trovato la sua strutturazione definitiva nel sec. XIV. La storia del Verdente è legata alla presenza in zona dei monaci farfensi che nella zona di Rotella avevano una curtis agricola, una struttura produttiva con terreni e case, un tipo di organizzazione sociale ed economica abbastanza diffusa nell’Europa occidentale del periodo altomedievale.
Anche se, per alcuni, il nome Verdente (o Verdiente) sembra derivare dal latino viridis (verde), per ricordare che la zona era ricca di vegetazione (era cioè “verdeggiante”), il toponimo probabilmente discende dal vecchio nome, attestato nei documenti (1290), di Sancta Maria ad burdentis, da aquas burdentes cioè fuoriuscenti dal terreno e intorbidate per gli smottamenti dello stesso. Il passaggio dalla “b” alla “v” sarebbe dovuto a motivi legati al dialetto locale (G. Crocetti, 1985).
I farfensi erano monaci dell’abbazia di Farfa, vicino Rieti. La storia dell’abbazia, lunga e ricca di episodi, si innesta in quella del Piceno nel 680, quando presero carico del monastero di Sant’Ippolito a Santa Vittoria in Matenano. Fu la cosiddetta “seconda migrazione sabina”, dopo quella, arcaica e leggendaria, del ver sacrum delle popolazioni arrivate dal Reatino seguendo il volo di un animale totemico (un picchio).
Farfa diventò “Badia imperiale” all’epoca di Carlo Magno, arrivando ad avere potere e proprietà grandissimi. Dopo l’assedio dei Saraceni dell’890, molte attività furono trasferite nelle Marche e i monaci farfensi contribuirono, a partire dal fatidico Anno Mille, allo sviluppo culturale e sociale delle popolazioni picene. Nei secc. XII e XIII, i farfensi ampliarono i loro domìni nei Comitati Ascolano e Fermano e nel Ducato di Camerino, fino all’Anconetano («Nel periodo del suo massimo splendore, il monastero di Farfa estendeva i suoi domini dall’Abruzzo all’Italia settentrionale. Possedeva vasti territori anche nel Piceno, I. Brandozzi, 1992)».
La loro opera capillare ha lasciato testimonianza anche nel territorio dell’Ascensione, dove i farfensi avevano il monasterium Sancti Laurentii in Polesio cum castello di Rotella e altri possedimenti. Alla curtis di Rotella apparteneva l’oratorio del Verdente; il monastero di riferimento era quello di Montemisio, località sede del santuario mariano della Madonna della Consolazione (già chiesa rurale di S. Mariae Montis Miscii), ai piedi della montagna, non lontano dalla frazione di Capradosso. Il toponimo deriva forse dalla dedicazione di un tempio pagano ad Artemide, la Diana dei Romani; l’altro nome della divinità era Artemisia e da “Monte di Artemisia” sarebbe derivato “Montemisio”, con la vocale terminale trasformatasi (da “a” in “o”) per accordarsi con la parola “monte”, di genere maschile.
Fin dall’antichità remota, Montemisio era un posto frequentato, per la presenza di un centro religioso e perché qui passava il vorsus della Salaria, una strada che da Ascoli arrivava a Fermo, toccando Novana, località non ancora identificata con certezza (forse a Montedinove). A Montemisio sono stati rinvenuti resti di costruzioni antiche, già citate dal Colucci nel sec. XVIII: «[La chiesa di Montemisio] Dedicata alla Beatissima Vergine della Cintura, juspatronato della Comunità, nelle cui vicinanze si vanno scoprendo vestigi di antico abitato come ruderi di antiche muraglie, acquidotti, casse sepolcrali in pietra, e qualche antica medaglia».
Di fronte al santuario vegeta una quercia secolare, alla quale è legato un aneddoto. Il parroco aveva venduto le querce del bosco che circondava la chiesa a una ditta che ne avrebbe ricavato traversine per la costruenda ferrovia adriatica.
L’ultima quercia si salvò dal taglio per l’intervento dei contadini della zona che minacciarono il canonico, prospettandogli la stessa fine dell’albero. Davanti a quella quercia, per innumerevoli anni si sarebbe celebrata la popolare “festa delle canestrelle”, molto diffusa nelle aree rurali picene, durante la quale giovani vestiti in costume tradizionale offrono alla divinità mazzi di spighe di grano, frutto del recente raccolto.
L’oratorio del Verdente («Negli inventari dei secc. XVIII e XIX la chiesa è denominata Chiesa dell’Annunziata o S. Maria di Verdente, G. Crocetti)». Si arriva alla chiesetta con un’ampia sterrata che sale tra i campi e, dopo l’oratorio, raggiunge le case di Capradosso; il paesaggio è quello rurale tipico marchigiano, dove l’intervento dell’uomo ha creato un sereno equilibrio tra il naturale e il costruito. Il fabbricato era un edificio di servizio per i lavoranti agricoli: monaci, conversi e braccianti avrebbero avuto una sede adatta per l’alternanza lavoro-preghiera e un riparo sicuro dalle intemperie.
L’edificio sorge ai margini di un’area coltivata, in Contrada Icone di Capradosso, frazione di Rotella; è costituito da un’aula rettangolare, senza campanile (caratteristica frequente nelle chiese rurali dell’epoca), con una piccola abside rivolta ad est e il tetto a capanna con la travatura di legno a vista. La costruzione è realizzata utilizzando la cosiddetta “pietra sponga (spugna)”, un materiale calcareo poroso, leggero e di facile lavorazione. L’altare, situato al centro dell’abside, è costituito da un semplice blocco in muratura, decorato.
All’interno la chiesuola è realmente splendida, con le pareti affrescate con dipinti devozionali risalenti alla seconda metà del sec. XV. Le figurazioni sono legate al voto della comunità del vicino centro di Capradosso che, superate le terribili epidemie di peste del 1457 e del 1463 (l’edificio, discosto dalle case di abitazione, era stato utilizzato anche come lazzaretto e luogo di sepoltura), volle dedicare alla Vergine e a Santi protettori la decorazione dell’edificio sacro.
Questo tipo di edificio devozionale era abbastanza frequente in zona, dove spesso venivano costruite chiesette e cappelle in aree rurali o fuori dell’abitato, per evitare che devoti infetti entrassero in paese, dato che all’epoca non esistevano norme di protezione e di prevenzione efficaci come il distanziamento sociale che oggi ben conosciamo.
Il ciclo di affreschi comprende 21 figure; diverse hanno come soggetto la Madonna; oltre a un’Annunciazione sulla parete sopra l’altare, sono presenti rappresentazioni della Vergine col Bambino e in trono. Riguardo all’affresco dell’Annunciazione, «La scena riproduce uno schema noto, tradizionale nella pittura marchigiana e abruzzese del sec. XV».
Altri personaggi presenti sulle pareti sono Santa Caterina (invocata durante le pestilenze e le malattie gravi) in uno Sposalizio mistico, Santa Scolastica (la figura della sorella germana di San Benedetto ricorda che i farfensi seguivano la Regola del santo norcino) e San Vincenzo Ferrer (secc. XIV-XV, domenicano spagnolo soprannominato “l’angelo dell’Apocalisse”, per le sue prediche sconvolgenti). Riguardo a quest’ultimo santo, è interessante notare che era nato in Spagna ma il culto si diffuse rapidamente nell’Italia centrale dove era invocato contro i fulmini e i terremoti, oltre che nel rito propiziatorio delle rogationes (litanie), bene augurante per il raccolto. La devozione è ancora diffusa in Abruzzo, dove il santo era vissuto per diversi anni (a Sulmona).
Nell’oratorio sono presenti diversi altri affreschi votivi; non è possibile descriverli qui, per il ridotto spazio a disposizione; ricordiamo solo che vi sono effigiati diversi santi (e sante) che erano invocati nelle cause “difficili”. Tra gli altri, la Madonna delle Grazie, il culto della quale fu diffuso da San Giacomo della Marca (sec. XV).
Il Maestro del Verdente. All’argomento, il già citato Giuseppe Crocetti dedica un’analisi approfondita, alla quale si rimanda. L’autore degli affreschi sembra essere Pietro Albanese, artista allievo di Fra’ Martino Angeli, attivo a Santa Vittoria in Matenano e in provincia di Ascoli. Le opere sono realizzate, in uno stile di transizione tra il gotico e il rinascimentale, con figure eleganti e ricche di particolari.
Un’osservazione. Chi ha già visto edifici simili, rimane colpito dall’assenza quasi totale di affreschi raffiguranti i due santi che più degli altri venivano invocati come protettori contro le pestilenze, San Sebastiano e San Rocco.
L’immagine sacra più frequente è quella della Madonna, nelle sue figurazioni “classiche”; manca quella come Madonna del Soccorso, presente in altri contesti.
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