di Gabriele Vecchioni e Narciso Galiè
Questa è la seconda parte dell’articolo riguardante i Monti Gemelli (clicca per leggerlo), ripreso dalla storica rivista della sezione aquilana del Club Alpino. Della genesi dell’articolo abbiamo riferito nell’introduzione alla prima parte, relativa alla geografia e al patrimonio naturale del gruppo montuoso; questa seconda e conclusiva parte riguarda una delle caratteristiche identificative del rilievo, le capanne pastorali di pietra a secco – meglio conosciute come caciare, e un breve riassunto delle tante vicende storiche che hanno interessato l’area.
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Le caciare. Uno dei segnali di identificazione della Montagna dei Fiori è dato dalla presenza delle capanne di pietra dei pastori, le caciare. In tutta l’area ne esistono più di centocinquanta, distribuite sia sul versante sud-orientale (in località I Casali) sia in quello opposto (area di San Vito di Valle Castellana; ce ne sono anche in un posto di difficile accesso (per le greggi di ovini) qual è il Fosso Il Vallone.
L’origine di queste semplici architetture spontanee, che trovano nell’area dei Monti Gemelli la dislocazione più settentrionale del Paese, è dibattuta: l’ipotesi più suggestiva fa risalire queste capanne a strobilo alle costruzioni a tholos (tombe micenee a cupola, ogivali), per la somiglianza strutturale. I pastori-costruttori le avrebbero viste durante la migrazione stagionale in Puglia: la zona di origine delle caciare sarebbe quindi la regione meridionale, che si può pensare soggetta, per la vicinanza geografica, a influenze della cultura greca.
Le caciare sono capanne di pietra di forma pseudo-conica, costruite in aree limitrofe alle zone di pascolo utilizzando materiale litico reperito in loco e sistemato “a secco”, con le pietre più grandi alla base e la parte sommitale (la cupola) cieca. Può esistere anche una stretta luce (finestra), di solito sopra l’architrave della porta, con funzioni di scarico.
La struttura è di esigue dimensioni e può costituire ricovero solo temporaneo. La tipologia delle caciare della Montagna dei Fiori sembra escludere una loro funzione come caseifici ante litteram, nonostante il nome lo lasci pensare.
Alcuni di questi manufatti stanno deteriorandosi in maniera vistosa; sarebbe opportuna un’opera di manutenzione-restauro per poterle mantenere funzionali, soprattutto per ragioni di memoria storica. Al proposito, è opportuno precisare che si tratta di costruzioni relativamente recenti (70-80 anni) ma il metodo costruttivo è antichissimo.
Ricordiamo un’affermazione di Edoardo Micati, ricercatore abruzzese dell’Archeoclub, uno dei maggiori studiosi di questi edifici: «la continuità della tecnica costruttiva ha maggior valore del manufatto stesso».
Le vicende storiche. Le Montagne Gemelle sono state spesso “sfiorate” dalla Storia e, a volte, sono state sede di avvenimenti importanti: hanno visto migrazioni e insediamenti, eventi bellici e testimonianze di pace, dispute e commerci.
La dovizia di tracce storiche può essere individuata per una serie di motivi: la particolare posizione geografica di transizione tra i grandi massicci dell’Appennino centrale, i Monti della Laga e le colline del Teramano; la vicinanza di centri “importanti” quali Ascoli Piceno, Civitella del Tronto, Campli e Valle Castellana; la condizione di confine geografico e politico, prima tra due Stati (lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli), poi tra due entità regionali (Marche e Abruzzo), all’interno dello Stato unitario italiano.
Le testimonianze storiche coprono un arco temporale molto ampio; qui di seguito ne forniamo un breve riassunto.
Epoca protostorica. Ritrovamenti archeologici (strumenti litici, amigdale, resti di offerte per riti della fecondità) appartenenti a epoche diverse che vanno dal Paleolitico all’Età del Bronzo, si sono avuti sulla Montagna dei Fiori, sul Colle San Marco e nella Grotta Sant’Angelo (a Ripe). I reperti sono esposti nei Musei archeologici di Ascoli Piceno e di Campli.
Epoca romana. Reperti risalenti all’epoca della presenza romana (secc. V-II AC) sono stati localizzati a Castel Trosino, nella valle del Castellano.
I fianchi della depressione del Salinello furono interessati al passaggio di un’antica via commerciale, la “via del sale”, identificata da alcuni storici come un ramo della Via Salaria, la “mitica” Via Metella. Questa via sarebbe stata utilizzata da Annibale per raggiungere la costa adriatica, dopo aver inutilmente assediato Spoleto e prima della battaglia di Canne, per far riposare uomini e animali. Per controllare tale itinerario esisteva, probabilmente, un castrum, un accampamento militare fortificato.
Il Medioevo. Nel periodo alto-medievale, l’area vide fiorire il fenomeno dell’eremitismo: le cavità naturali del massiccio calcareo della Montagna dei Fiori, quelle nel travertino del sottostante Colle San Marco e i boschi allora fitti che ricoprivano le loro pendici costituirono sicuro rifugio per numerosi uomini di fede.
Negli anni immediatamente precedenti, zone periferiche della montagna avevano visto il passaggio e lo stanziamento dei Longobardi, che lasciarono tracce importanti (l’area sepolcrale di Castel Trosino e le tombe barbariche ritrovate di recente e Campovalano.
I ricchi reperti della necropoli marchigiana sono conservati nel Museo romano dell’Alto Medioevo; quelli “abruzzesi” (ma di cultura picena) sono nel bel Museo di Campli e in quello di Chiesti.
Al sec. XIII risalgono i resti imponenti di Castel Manfrino, baluardo difensivo fatto costruire, con molta probabilità, dal re svevo Manfredi, sui resti del già menzionato castrum romano esistente all’imboccatura della valle del Salinello (ricerche e studi recenti sembrano escludere, però, questa possibilità). Esso era legato probabilmente a una “linea difensiva” strategica, integrata con altre fortificazioni, tra cui quella di Civitella del Tronto.
Il fenomeno del brigantaggio. La presenza dei briganti nelle grotte e nei paesi alle falde della dorsale della Montagna dei Fiori e di quella di Campli è stata una delle caratteristiche identificative dei Monti Gemelli. Nomi come quello del prete-brigante Donato De Donatis e Giuseppe Costantini alias Sciabolone sono tuttora presenti nell’immaginario collettivo degli abitanti della zona.
Dal punto di vista storico, il brigantaggio locale, intendendo con esso il fenomeno della ribellione all’autorità e la resistenza alle prepotenze dell’invasore, inizia con i fuoriusciti ascolani, ai tempi delle lotte contro Roma. Se invece si restringe la visione a epoche più recenti, si può far risalire la nascita del fenomeno alla fine del ‘700, come reazione sanguinosa (più o meno spontanea) dei contadini e montanari alle invasioni e angherie delle truppe francesi; esso prosegue poi, con motivazioni diverse, fino all’Unità d’Italia… e oltre.
La lotta brigantesca contro i francesi si trasformò, nella seconda metà dell’Ottocento, in quella contro i Piemontesi. Particolarmente significativo è il contributo dato ai difensori della Fortezza di Civitella, ultima piazzaforte del Regno a resistere all’invasore, nonostante il Re di Napoli si fosse arreso e la municipalità civitellese avesse manifestato la volontà di aderire al Regno d’Italia (articolo precedente, leggilo qui).
La lotta partigiana. La città e la provincia di Ascoli Piceno sono insignite della medaglia d’oro per meriti acquisiti durante la lotta contro gli occupanti tedeschi, a partire dall’ottobre del ’43. Gli scontri più importanti si ebbero proprio sulle pendici della Montagna dei Fiori dove, nel corso dei combattimenti con le truppe regolari tedesche, caddero numerosi partigiani. La lotta non risparmiò, oltre alle vite umane (anche civili), vestigia storiche: a Colle San Giacomo, i resti del conventino di San Francesco, poi Casa Doganale, crollarono a causa del brillamento di mine.
Al termine dell’articolo, una precisazione. L’auspicio espresso a proposito nel restauro delle caciare divenne realtà: in effetti, furono restaurate (alcune letteralmente “ricostruite”) una ventina di manufatti, nell’ambito di un Programma di valorizzazione promosso dal Parco Nazionale.
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