di Luca Capponi
Il ricordo in certi casi è un dovere. Da tenere vivo in ogni modo. Ancora qualche ora, e alle 3,36 saranno passati cinque anni. Il sisma di Arquata, Amatrice e Accumoli. Il terremoto del centro Italia, con le sue troppe vittime. E chi se lo scorda, si potrebbe ben dire.
Già, vero, chi se lo scorda. Anche perché ne parleranno tutti, come al solito, almeno in questi giorni: radio, tv, giornali, web. Speciali, interviste, documentari, servizi. E non potrebbe essere altrimenti. Si farà il punto sulla ricostruzione, che finalmente sembra avere preso la via della partenza. Si rivivranno quei momenti drammatici, magari puntando sull’effetto commozione, inevitabile. Sarà così. Anche se probabilmente, di tutta risposta, come giusto che sia, questa gente di montagna anziché parlare srotolando fiumi di parole, se ne starà in silenzio.
A testa bassa, con una lacrima in più. Perché chi vive nel cratere, al centro del cratere, ricorda ogni giorno. E ogni giorno che passa la memoria scandisce la vita di chi ha perso familiari, amici, conoscenti. Di chi ha non ha più casa e comunità. Un luogo dove crescere e vivere. Di chi ha visto spezzarsi la condivisione del bello. Gli abitanti di Arquata (dove per il 24 agosto il Comune ha dichiarato il lutto cittadino), Amatrice e Accumoli convivono con tutto ciò da sempre, dopo quella maledetta notte. Non c’è Covid, caldo opprimente, vittoria sportiva, lieto evento o altra cosa capace di cancellarne anche solo una piccola parte. È così.
Ricordare in certi casi è un dovere. Lo è, di più, non dimenticare. Soprattutto da parte di chi questa tragedia non l’ha vissuta direttamente: si tratta del miglior modo di manifestare vicinanza umana, anche da lontano, a tanta gente che cerca un modo per tornare a vivere.
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