di Walter Luzi
Il solo parlare della scomparsa di Carlo Mazzone ci lascia già un vuoto dentro. Anche se i miti come lui, in realtà, non moriranno mai. Perché ogni parola ci sembra vuota, banale, retorica, in questo momento, e per descrivere l’uomo e il tecnico, entrambi di qualità immense, d’altronde, ci vorrebbe un trattato enciclopedico. E dall’afoso pomeriggio di ieri, su giornali e social, radio e televisioni, dove la triste notizia è rimbalzata, i commentatori più autorevoli ci hanno raccontato tutto, o quasi, di lui, e delle sue tantissime imprese sportive. Noi che abbiamo avuto il privilegio di averne vissuto e condiviso con lui la prima, e più esaltante, della lunga serie, vogliamo ripercorrerne, un’ultima volta, la vita. Non per celebrarne i successi, o magnificare i numeri delle statistiche che lo consacrano decano degli allenatori di calcio italiani. Ma per accarezzarlo con affetto un’ultima volta. Per ringraziarlo ancora delle gioie e degli insegnamenti che ha saputo dispensare. Le prime alle tifoserie di mezza Italia calcistica che oggi lo piange. I secondi a tutti i suoi giocatori nelle squadre che ha allenato in quarant’anni ininterrotti passati sulle panchine di un campo di calcio. E sono stati i campioni più grandi a manifestargli presto, per primi, l’affetto, la gratitudine e la stima infinite che possono essere dovute solo ad un padre.
IL GIOCATORE
Carlo Mazzone vive la propria infanzia in tempi duri. La famiglia per lui è già un riferimento irrinunciabile. La mamma Iole la perde troppo presto, con le tre sorelle a cercare di supplirne l’affetto. Il papà Edmondo, meccanico in una autorimessa, osteggia le sue velleità calcistiche di ragazzino, nate sul campetto sgangherato di Santa Maria in Trastevere, inorgogliendosi del figlio solo dopo l’esordio in serie A, a ventidue anni, con la “sua” Roma. Quelle due partite della stagione 59/60 nella massima serie con la maglia della squadra che ha amato di più resteranno le uniche della sua carriera di giocatore. Lo mandano a farsi le ossa in provincia, a Ferrara, nella gloriosa Spal prima, e Siena poi prima di Ascoli. Qui, quando i tifosi intuiscono che questo romano ruberà il posto in squadra all’idolo di casa Giuliano Torelli, nella notte della vigilia della partita con la Lucchese segano per protesta i pali delle porte del campo “Squarcia”. Iniziare peggio non si può. Non vede l’ora di tornarsene a Roma. Invece, qualche anno dopo, lo faranno anche capitano. La voglia di tornare nella capitale, in verità, gli è passata quasi subito. E’ una giovane e carina commessa di un negozio di dischi ed elettrodomestici in via Trieste a fargliela passare. Si chiama Maria Pia. Si innamorano perdutamente, e si sposano a Roma dopo appena un anno. La sua carriera di giocatore si interrompe bruscamente il 3 marzo 1968. In un contrasto si rompe una gamba durante uno degli infuocati derby con la Sambenedettese. «Chi li ha vissuti – dirà – non può temere più nulla».
L’ALLENATORE DEL MIRACOLO ASCOLI
Subito dopo il grave infortunio si preoccupa di poter mantenere la sua famigliola, che ha visto arrivare intanto i due figli Sabrina e Massimo. Per fortuna questo nuovo e giovane e dinamico presidente, Costantino Rozzi, da poco nominato, lo rassicura subito conferendogli un incarico alla guida del settore giovanile. Non solo. Quando il presidente si stanca degli allenatori della prima squadra, e gli capita con una certa frequenza, lo chiama per raddrizzare situazione e classifica. Succede per tre volte in tre anni. Lui ogni volta compie la missione e rientra nei ranghi. Fino a quando Rozzi non lo nomina allenatore della prima squadra fin dall’inizio dei stagione. Lui chiede solo garanzie nel caso che le cose dovessero andar male. Un posto di lavoro qualsiasi, anche come muratore nella sua impresa. E’ il 1970. L’alba di una epopea irripetibile contraddistinta dall’accoppiata vincente: Costantino Rozzi e Carlo Mazzone. Due leggende. Che riescono a portare l’Ascoli dalla serie C fino in serie A in tre anni. E’ il Miracolo Ascoli. Una città dentro lo stadio titolano i giornali. Un’impresa che fa approdare per la prima, storica, volta le Marche in serie A. I due si incontrano il lunedi alle sei di mattina, prima che il presidente parta alla volta dei suoi cantieri sparsi in tutta Italia, e il venerdì sera, al suo rientro, fino a notte fonda. Mazzone ha già dimostrato di saper scoprire giovani talenti, e soprattutto di rivitalizzare e motivare calciatori giunti a fine carriera, o reduci da infortuni. Il suo Ascoli, anche in serie A, gioca un calcio spettacolo, d’avanguardia. Poco redditizio però nel girone di andata chiuso in fondo alla classifica. Viene a sapere che alcuni dirigenti, forse all’insaputa del presidente, stanno sondando la disponibilità di alcuni colleghi in vista di un suo imminente esonero. Ci resta male, e inizia a meditare l’addio. Nell’anno del debutto in serie A, nel girone di ritorno l’Ascoli fa gli stessi punti della Juventus e si salva con una giornata di anticipo. Mazzone vince il premio “Seminatore d’oro” e al centro tecnico di Coverciano sale in cattedra per spiegare a tutti questa novità del suo gioco a zona. Quel modulo 4-3-3 che privilegiando l’assistenza al possessore di palla in ogni zona del campo ha reso invincibile il suo Ascoli. Altro che catenacciaro. Ma qualcosa, come detto, si è già incrinato nel rapporto. Accetta l’offerta della Fiorentina. Gli passa personalmente le consegne Nereo Rocco, il paron, un altro mito del calcio italiano con il quale ha molti punti in comune. Un incontro riservato concluso con un lungo abbraccio, ed entrambi in lacrime. L’addio all’Ascoli non gli verrà a lungo perdonato, perché interpretato come una sorta di tradimento. La fede ottusa dei tifosi non sa leggere, e non può giustificare, il legittimo e sacrosanto desiderio di crescita professionale di un giovane allenatore emergente. Tornerà sulla panchina dell’Ascoli cinque anni dopo. Per guidarlo ad altre quattro sofferte e miracolose salvezze in serie A prima del definitivo addio. «Una salvezza dell’Ascoli – dirà – per noi equivale a vincere uno scudetto».
IL DECANO
Dopo l’Ascoli Mazzone passa alla guida tecnica di Fiorentina, Catanzaro, Bologna, Lecce, Pescara e Cagliari lasciando ovunque un bel ricordo e ottenendo buoni risultati. Il suo primo numero 10 eccellente è un giovane Giancarlo Antognoni, che nomina capitano, ma su ogni piazza gli capita di allenare campioni e nazionali, e coltivare giovani talenti. Nel 1993 assume la guida della “sua” Roma. Con il presidente Sensi trova l’accordo in cinque minuti, e viene siglato solo con una calorosa stretta di mano. Verso la sua famiglia, alla pari di quella Rozzi, non smetterà mai di manifestare gratitudine e affetto sinceri. E’ qui che scopre, lancia e protegge da stampa e media, un giovanissimo Francesco Totti. Successivamente tornerà a Cagliari, e Bologna dopo la brevissima parentesi napoletana. Quindi Perugia, Brescia e ancora Bologna prima di chiudere una fantastica carriera al Livorno. Quindici presenze che gli permettono di scavalcare proprio Nereo Rocco nella classifica delle panchine in gare ufficiali di serie A (795) che sommano, complessivamente, a 1.278 includendo quelle di serie B e C, le Coppe di Lega e internazionali e i vari spareggi. Anche sul finire della sua lunghissima carriera non smette di coccolare e rivitalizzare geni assoluti e spesso incompresi di questo sport, come Roberto Baggio e Andrea Pirlo, e futuri mister di grande avvenire come Pep Guardiola. Tutti loro, e tanti altri ancora, gli hanno tributato tutta la loro gratitudine e devozione nelle testimonianze del recente film-documentario “Come un padre” che racconta la sua vita sportiva. Passata sui campi di gioco e in larga parte nelle camere d’albergo, perché la sua famiglia non ha mai voluto farla spostare da Ascoli. Solo. A rosicchiarsi le unghie studiando carichi di lavoro, soluzioni tattiche e movimenti giusti per riuscire a vincere la partita la domenica successiva.
PERSONA E PERSONAGGIO
Su Carlo Mazzone sono stati scritti diversi libri, ha ispirato imitazioni irriverenti, e interpretato sé stesso in un film accanto a Lino Banfi. Ha polemizzato in diretta con giornalisti famosi e rifiutato più volte inviti in prestigiose trasmissioni televisive. Quelle a cui tanti vip sgomitano per poter comparire. Ha sempre difeso con veemenza la sua indipendenza di scelte rispetto ai disegni delle società, e i propri giocatori dagli attacchi della stampa, facendosi scudo alle critiche anche quando questi erano indifendibili. Soprattutto ha tenuto lontano da salotti televisivi e dagli schermi tutti i componenti della sua famiglia, facendo della riservatezza uno stile di vita. Ha continuato a frequentare, finché ha potuto, con la moglie lo stesso ristorante ascolano e lo stesso chalet sulla riviera sambenedettese, di sempre. Non ha mai snaturato la sua anima semplice e popolana, la sua romanità più genuina, la sua saggezza antica e schietta. “Non ho mai allenato una grande squadra metropolitana del nord – amava ricordare – perché non metto quasi mai giacca e cravatta, e non sono tanto bravo a parlà”. Sperava anche, ad un certo punto, in una chiamata della Federazione per guidare la Nazionale, anche perché era zeppa di suoi ragazzi che aveva cresciuto nei vari club. Ma quella telefonata non è mai arrivata. Gli diranno a causa, forse, di quella corsa forsennata sotto la curva atalantina che aveva appannato la sua immagine. Ipocrisia vergognosa del potere. Non se ne era mai vantato, e si era anche scusato, di quei due minuti fuori controllo. Quella corsa e gli insulti ricambiati a quelli, volutamente insistiti, dei tifosi atalantini verso la sua adorata mamma che aveva perso troppo presto, è stata l’ulteriore prova della sua essenza dura e pura. Di difensore appassionato delle regole e dei ruoli, che non scende mai a compromessi. Del suo carattere che quando uno ce l’ha si tende poi a definire caratteraccio. Della sua grande passione per il calcio che ha sempre anteposto a tutto. Ai soldi, e a tutto il resto. Ci piaceva così Carlo Mazzone. Ci mancherà. A noi. E a tutto il mondo del calcio.
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