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“Feste di primavera”: breve storia di ciò che accadeva nei dintorni di Ascoli

NELL’ANTICHITA’ l’arrivo della primavera veniva festeggiato con feste all’aperto, con grande concorso di gente. Una tradizione che si è mantenuta viva per secoli, fino qualche decennio fa, e che ha una qualche reminiscenza nelle odierne gite “fuori porta”. Ripercorriamo la storia di queste feste popolari
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La chiesa dismessa di San Salvatore di sotto, a destra il finestrone della facciata visto dall’interno

 

di Gabriele Vecchioni

 

Fino a qualche tempo fa era viva, nell’Ascolano, la tra­dizione di festeggiare l’arrivo della bella stagione con riti antichi di sapore pagano. Erano manifestazioni che seguivano schemi naturalistici come, per esempio, quello del “piantar maggio” che consisteva nel conficcare nel terreno un albero simbolico, poco più di un palo, chiaro riferimento fallico.

 

In un volume sugli eremi del Colle San Marco (scritto con l’amico Narciso Galiè) veniva analizzata una manifestazione tradizionale che si teneva nelle adiacenze del Pianoro omonimo, relativa a una delle “feste della primavera”, un tempo frequenti. Questo articolo analizza brevemente quel tipo di festa popolare contestualizzandola nel territorio vicino alla città picena.

 

Fioriture primaverili (foto G. Vecchioni)

 

I luoghi deputati a queste celebrazioni popolari erano diversi; i più importanti erano Colle San Marco, nei pressi del monolito di travertino conosciuto come Dito del Diavolo, la località di San Giorgio, davanti a Castel Trosino, sotto la rupe di Rosara, il poggio dov’era situato San Salvatore di sotto e il pianoro sommitale del Monte dell’Ascen­sione.

 

Una delle feste, per Secondo Balena, attento studioso delle tradizioni picene, si teneva nel mese di maggio vicino al gigantesco torrione roccioso conosciuto co­me Dito del Diavolo e derivava direttamente dai riti pagani già ricordati. La ricorrenza era talmente sentita dalla popolazione che l’autorità religiosa, non potendola abolire, cercò di incanalare la tradizione “su altre strade”. Il colle venne dedicato a San Marco, la cui festività cadeva più o meno in quei giorni, e certe simbologie vennero pian piano dimenticate; il torrione di roccia cambiò nome e divenne il Dito del Diavolo, simbolo del male. Sempre il Balena fa risalire questa transizione al sec. V-VI, con la venuta di San Benedetto da Norcia ad Ascoli (ne rimane memoria nella fondazione del non-lontano convento benedettino di Montesanto) e il fiorire degli eremi sul Colle San Marco e sulla Montagna dei Fiori.

 

L’affresco del Mariani (1891) realizzato sul tamburo del Duomo (spiegazione nel testo)

 

La celebrazione, descritta con dovizia di particolari dal Gabrielli, per gli ascolani si era trasformata, col tempo, in una festa “familiare”, una scampagnata fino all’eremo e al Pianoro. Entrambi gli autori la descrivono con una serie di quadretti vivaci, con particolari gustosi. Secondo Balena racconta di «lunghe fila di asini e muli carichi di barilotti di vino, pentoloni per cuocere le tagliatelle, agnelli e pecore arrostiti, porchette e pagnotte grandi come la luna piena». Riccardo Gabrielli scrive che «Circondate da gruppi qua e là, fra una fitta corona di curiosi, molte coppie di giovani danzano al suono degli organetti. […]. Numeroso poi è il concorso dei fedeli alla Santa Messa celebrata al­l’interno della grotta e alla processione animata dal­l’argenti­no suono delle campane e dallo scoppio dei mortaretti».

 

La lastra incisa di Polesio (foto G. Vecchioni, spiegazione nel testo)

 

Un altro luogo dove si svolgevano feste nel periodo primaverile era il Monastero di San Giorgio ai Graniti, sotto la possente rupe di travertino di Rosara. In questa località accorrevano grandi folle per festeggiare; già in epoche antiche, le gerarchie religiose decisero di “ap­propriarsi” di questo appuntamento, trasformandolo in festività cristiana. La partecipazione della gente era fa­vorita dalla devozione popolare per il santo: le donne infilavano le forcine per i capelli in un’im­ma­gine di San Giorgio lavorata a traforo su una lastra metallica, chiedendo la guarigione dal mal di capo; per lo stesso motivo, venivano scrostati gli intonaci della chiesa e con il ricavato si confezionavano “car­tine” da sciogliere nel­l’acqua da bere.

 

Il borgo di Castel Trosino dall’area di San Giorgio (foto G. Vecchioni)

 

Dalla descrizione che ne fa Riccardo Gabrielli nel 1937 (rielaborata in un articolo del 1945), la festa si teneva nelle domeniche di maggio ed era piuttosto frequentata, tanto da richiamare parecchia gente anche da località vicine dell’Abruzzo. Una vivace descrizione degli e­venti si deve allo stesso giornalista, autore di un ampio resoconto su questa tradizionale celebrazione popolare che si teneva annualmente presso San Giorgio. Egli scrive, tra l’al­tro, che «la folla si addensa rumorosa, per assistere alle danze rusticane… […] Fuori, sul largo della chiesa, la folla s’agita, s’urta in un tumulto di sfrenata allegria. I venditori ambulanti di commestibili, di vini, di birra e di gassosa vengono addirittura assediati perché ognuno ha bisogno di ristoro, solleticato dalla fresca aria montanina. Intanto il pesce frigge nelle grosse padelle. Un grosso nembo di fumo s’innal­za verso l’az­zurro. […] Intanto le campane suonano a distesa, tra un accordante strepito di bombe e mortaretti. È l’ora della solenne processione, che si svolge lungo le difficili strade, con pittoresco effetto di luci e colori». L’arti­colista conclude poeticamente la sua cronaca, riferendo che «Le ombre avvolgono d’un mistico velo l’eremo solitario. La strada per Ascoli scende ripida e tortuosa. Nel silenzio dell’ora s’ode solo il fragore del fiume».

 

L’edificio, ormai collabente, del Monastero di San Giorgio (foto G. Vecchioni)

 

La tradizione della gita primaverile a San Giorgio è durata fino a circa 70-80 anni fa, mantenendo l’atmosfera pagana di festa edonistica, pur se “ammorbidita” dagli aspetti religiosi. L’ultima cronaca risale al 1945, quando la chiesa fu interdetta ai fedeli, a causa delle condizioni precarie del tetto; da allora, la situazione è peggiorata e il monastero è ormai un rudere inagibile (il termine esatto è “collabente”).

 

Un’altra località nella quale venivano celebrate le feste di primavera era il colle dove ora sorge la chiesa sconsacrata di Gesù Salvatore, la cui fondazione si attribuisce a San Romualdo (sec. XI). A proposito di questo tempio, l’episodio rappresentato in uno degli affreschi di Cesare Mariani sul tamburo del Duomo ascolano («Sant’Emidio trascinato al tempio di Giove per compiere un sacrificio, implora Dio e questi scatena un terremoto»), è ambientato, molto probabilmente, proprio in questo sito.

 

I resti del Convento di San Giorgio, sotto la rupe di travertino di Rosara (foto C. Ricci)

 

A San Salvatore di sotto, «che si erge su un poggio amèno da cui si gode il panorama di Ascoli turrita, dei dolci colli e di non lontani monti», la festa veniva celebrata il giorno dopo Pasqua e viene descritta, ancora dal Gabrielli, in un articolo del 1937 su Il Giornale d’Italia. Il giornalista ricorda episodi di qualche anno prima e «l’enorme folla che si pigiava nel piazzale e lungo i fianchi della vetusta chiesa. Nella strada poi che conduce al poggio, erano assiepate numerose bancarelle per la vendita del vino, dolciumi e frutta di vario genere. […] Giochi, suoni e balli si confondevano in una atmosfera di spensieratezza e di pace. Ma con la forzata soppressione delle funzioni religiose nella nostra chiesa, ora il popolo non si reca più lassù…».

 

Della festa dell’Ascensione, dedicata all’ascesa al cielo di Gesù Cristo risorto, hanno scritto, in pratica, tutti gli storici locali e i giornalisti ascolani. È quindi facile trovare, in letteratura, notizie della tradizionale celebrazione che si teneva sul Monte.

 

Ne abbiamo scritto [l’autore di questo articolo con il già citato Galiè] diffusamente nel volume Il Monte dell’A­scen­sione. Ricordiamo solo che la festa è una delle più antiche d’Italia; il rito della processione fino alla cima di un colle è antichissimo e risale alla necessità di omaggiare il sovrumano in posti sopraelevati, nella regione delle folgori e dei vènti: è da questa usanza che viene, probabilmente, il senso profondo della parola “alta­re” (alta ara).

 

Molti vedono nella fe­sta cristiana del­l’A­scen­sione la cooptazione di riti ar­caici, legati alla glorificazione di divinità agresti e nemorali: il Mannocchi fa notare che la festa dell’Ascensione, anche se dedicata all’Ascensione del Signore, è in realtà in onore della Vergine Maria, come attesta la processione del suo simulacro; l’autore ipotizza la continuità di una festa in onore di Venere, la bella dea pagana, con quella di Maria, la “bella tra le belle” (uno dei canti in suo onore è Tota pulcra est Maria).

 

La colonna monolitica di travertino del “Dito del Diavolo” vista dal Pianoro di Colle San Marco (foto G. Vecchioni)

 

Dalle descrizioni dei festeggiamenti (di Alighiero Castelli e dei già citati Riccardo Gabrielli e Secondo Balena, solo per citarne alcuni) si evince che anche questa era una festa della primavera, probabilmente legata, in origine, alla “rinascita” della natura dopo la lunga stagione invernale. Bernardo Nardi (1982) ha scritto che «La pasqua cristiana veniva così a integrarsi con gli antichi riti in onore della primavera e la resurrezione del Cristo era vista come simbolo della rinascita della natura». A questo proposito, sulla parete laterale della chiesa di Polesio è murata una latra con un bassorilievo lapideo, una rarissima immagine del crocifisso con, a lato, un simbolo fallico, il “palo di maggio” del quale abbiamo già detto (v. foto a corredo dell’articolo).

 

Quanto all’appropriazione, da parte del Cristianesimo, delle cerimonie pagane che ancora sopravvivevano (dopo secoli di tentativi di annullamento), è ancora il Mannocchi che ne spiega i motivi, ricordando che la Chiesa non fu mai troppo rigorosa contro le credenze e le forme esterne di culto. E­gli cita Gregorio Magno che, rivolgendosi ai missionari diretti in Gran Bretagna (Epist. IX, 71) scriveva che «Non sopprimete le feste che fanno i Bretoni nei sacrifici dei loro Dei; tra­sportateli soltanto nella dedica della Chiesa ed alla festa dei SS. Martiri, af­finché, pur conservando alcuna delle materiali gioie del­l’idolatrìa, essi siano più facilmente tratti a gustare le gioie spirituali della fede cristiana».

 

SE VI SIETE PERSI QUALCHE REPORTAGE DI GABRIELE VECCHIONI…..

 

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