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Perché i finalisti del Premio Strega sono tutti così contenti?

RIFLESSIONE di costume, ma anche politica e sociale, sul principale evento letterario italiano che si sta trasformando in una rappresentazione buonista e auto-soddisfatta della società letteraria mentre chi non vi è ammesso soffre stritolato nelle regole del mercato editoriale. Da Paolo Di Paolo a Desiati a Bazzi alla sferzata di Filippo La Porta
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Premio Strega, i finalisti con Mimmo Minuto

 

di Pier Paolo Flammini

 

Avevo iniziato a scrivere questa riflessione quando sono venuto a conoscenza di un articolo scritto dal critico letterario Filippo La Porta per “L’Unità” dal titolo “Nevrotici, anti-borghesi, ribelli: scrittori, dove siete finiti?“, sempre in riferimento ai finalisti del Premio Strega. Stavo quasi per desistere dall’andare avanti, sembrava che io volessi solo cavalcare l’onda innalzata da La Porta, ma il comune amico Lucilio Santoni mi ha spronato: «Continua a scrivere l’articolo, sono questioni centrali sulle quali occorre riflettere e parlare a lungo».

 

Abitando alla periferia dell’Impero (si fa per dire), ovvero a San Benedetto del Tronto, vero estremo est italiano (la terza corsia dell’A14 termina quaranta chilometri più a nord, come a voler indicare l’arrivo in un Meridione per altro tagliato dai collegamenti ferroviari e autostradali diretti con la Capitale), devo ringraziare l’associazione “I Luoghi della Scrittura” che da anni organizza uno degli appuntamenti del Premio Strega alla Palazzina Azzurra, perché, al di là dell’evento letterario, consente anche ai residenti di affacciarsi sul principale evento narrativo italiano, che sembra diventare ogni anno sempre più centrale.

 

Sono riuscito ad assistere alla presentazione della sestina di finalisti di quest’anno e nel 2022 (l’anno della vittoria di Mario Desiati e della partecipazione del sambenedettese Fabio Bacà, a giudizio personale il migliore in lizza). Quella di quest’anno ha rafforzato in me alcune considerazioni da provinciale, sicuramente, che a distanza di quasi un mese – l’incontro avvenne lo scorso 19 giugno – si sono manifestate in un possibile articolo di critica di costume, anzi, politica e sociale, più che letteraria (per ora non ho letto nessuno dei romanzi finalisti dell’ultima edizione). Tutto nasce dal titolo, che racchiude un po’ il senso di tutto, senza la prossimità incerta di una sintesi imperfetta: “Perché i finalisti del Premio Strega sono tutti così felici?

 

Premio Strega, il pubblico alla Palazzina Azzurra

«Ci sentiamo come i Rolling Stones in tour, e ringrazio questa occasione perché io non ho avuto una vera giovinezza, ero una secchiona», ha ammesso candidamente Chiara Valerio, per spiegare lo stato d’animo suo e, supponiamo, degli altri finalisti. C’è sicuramente il piacere di una vacanza come da ragazzi, in un van con altri scrittori, portati a spasso per l’Italia a parlare di sé stessi e della propria opera (il che è equivalente: niente acredine, solo una constatazione di quanto sia appassionante poter dialogare con degli sconosciuti di qualcosa che si è realizzato con tanti sacrifici). Dario Voltolini è sembrato il più a suo agio nella gestione soft della serata, guidata con maestria e leggerezza dal giornalista Andrea Vianello: non si improvvisa un verso del cinghiale (e tanto altro) senza un talento goliardico innato.

 

Meno propenso a questo genere di estremismi è il più soffice e forbito Paolo Di Paolo (non si scrive su Repubblica a caso), anche lui però ben congeniale all’atmosfera da primo giorno di scuola della serata; Raffaella Romagnolo si è districata nel ruolo di maestrina a cui l’hanno eletta gli altri – questa è l’impressione – perché cattolica praticante o, almeno, frequentatrice delle messe alle 6 di mattina, con molta ironia. E anche un libro che pare ostico già dal titolo (“Artebiogrammatica”) di Tommaso Giartosio è scorso via, nelle brevi descrizioni fornite dall’autore, come un gioco intellettuale. Forse è un caso ma il libro vincente, come ampiamente preventivabile, scritto da Donatella Di Pietrantonio è quello per il quale l’autrice si è un po’ meno spesa sul fronte dell’intrattenimento, anche se con la sua voce flebile e le maniere educate non è riuscita, semmai fosse stata sua intenzione, a gravare la propria opera di quel peso che talvolta si desidera assorbire dalla letteratura, persino quando si presenta superficialmente leggera e pop.

 

I finalisti dello Strega, dunque, sono felici, e mostrano la loro contentezza al pubblico – numerosissimo – che accorre a vederli e ascoltarli. Due anni fa a San Benedetto lo show fu persino più sublime, con Desiati che abbandonò la sedia e si eresse al ruolo di intrattenitore comico alzandosi in piedi al momento di prendere la parola e arrivando a dire di essere «cresciuto attaccato alle mammelle di Mimmo Minuto», per i suoi trascorsi nelle Marche e la conoscenza con lo storico libraio sambenedettese. Ci fu in realtà un breve momento di adesione alla realtà di alcuni finalisti, quando commentarono la decisione di uno stato americano in merito ad alcune restrizioni sull’aborto: sicuramente Desiati e Veronica Raimo, forse meno Piersanti e Bacà (vado a memoria), espressero le loro preoccupazioni per quella decisione. Nulla sulla guerra in corso in Ucraina che vedeva, allora come oggi, il governo italiano parte in causa con l’invio di armamenti, invece. Nulla sulla precarizzazione delle nostre esistenze a partire dal lavoro, la distruzione dello Stato Sociale, anche se non avvenivano a migliaia di chilometri di distanza. Amen.

 

La partecipazione allo “Strega” salva dall’oblio la propria opera, la trae in disparte rispetto alla famelicità del mercato, anche se la finale è una sublimazione dello stesso mercato, trasformando gli scrittori in showmen e show women (si rimanda sempre all’eccezionale saggio di critica letteraria “Caccia allo Strega” di Gianluigi Simonetti per approfondimenti). Partecipare allo “Strega” consente di sentirsi dare del “vero” scrittore – il famoso sottopancia che ormai non si nega a nessuno diventa invece scolpito, si consolida rispetto alla fugacità digitale – e di non finire stritolati dalle regole del business, come testimonia in maniera sincera e toccante Valentina Durante (clicca qui).

 

Ma per carità, possibile che occorra far passare gli scrittori finalisti in una sorta di beauty center che affili gli artigli, ammorbidisca le voci, imbelletti l’imbellettabile fino ad arrivare addirittura a obbligarli a vestire con gli abiti degli stilisti manco fossero i Take That? Il male di vivere deve essere edulcorato, la critica alla società limitata alle relazioni familiari, la ferocia politica annientata? Gli scrittori finalisti devono esprimere anche nella forma del proprio corpo, prima ancora che con i loro romanzi, la soddisfazione di essere arrivati?

 

Il mondo sembra che stia rotolando verso una deriva tecnologica e transumana inarrestabile, e qui invece si enfatizza il ruolo di chi scrive e poi ne parla come se sorseggiasse un tè alle cinque del pomeriggio e non abbia nulla da obiettare, con la propria immagine, con le proprie parole ancor prima che le proprie opere? Oppure arrivare alla trasgressione di tipo sanremese, o, come scriveva Tondelli su Freddy Mercury, alle “scheccate”, come Jonathan Bazzi che nella serata finale dello Strega 2020 scrisse “Femminuccia” sulle unghie smaltate di nero pensando di disturbare chissà chi (forse solo il ministro Sangiuliano, oggi). Siamo ancora dentro il recinto consentito dal nuovo capitalismo, diritti civili ma non diritti sociali, economia fuori dalla porta, dunque nella migliore – o peggiore – delle ipotesi ripetere cliché già abusati da un cinquantennio, oppure, semplicemente, aderire alla forma consentita.

 

Non che lo “Strega” debba diventare una conventicola punk, ma avere delle voci che ci provochino riflessioni, ci aprano altre porte, ci diano dei pugni allo stomaco, è un auspicio e ormai una necessità: le famose periferie di cui si parla in politica, per capirci. Almeno togliersi la maschera da social-soddisfatto, dell’ironico tagliente e arguto, di chi ne ha viste e ormai non briga più per cambiare perché la sa lunga e non vuole finire come Valentina Durante (situazione che un’altra scrittrice, poetesse e critica come Gilda Policastro rielabora attraverso una puntigliosa e provocatoria performance via Instagram, ma qui diamo solo una indicazione, saremmo troppo lunghi).  Purtroppo anche il gioco del finto maledettismo – contraltare al borghesissimo languore di cui abbiamo scritto – sarà facilmente smascherato. Siate voi stessi, non autocensuratevi, piuttosto che lasciarvi coprire da una annichilente forma di narcisismo (social) che sta ammorbando tutti gli spazi della nostra società.


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