facebook rss

Storie dei Sibillini, il Parco delle leggende: la Sibilla, le Fate, il Guerrìn Meschino

TERRITORIO - In questo secondo articolo altre storie fantastiche legate alla figura della mitica Sibilla. Un personaggio che, reale o frutto di fantasia, ha inciso profondamente nell’immaginario collettivo
...

Il Monte Sibilla da Santa Maria in Casalicchio, in contrada Tofe di Montemonaco (foto G. Vecchioni)

 

di Gabriele Vecchioni

 

(foto A. Palermi e C. Ricci)

 

La storia fantastica più nota dei Monti Sibillini è quella della Sibilla, legata in maniera indissolubile alla grotta che si apre sotto la vetta del monte omonimo, sul versante di Montemonaco. Abbiamo già scritto di questa leggenda e delle sue implicazioni sociali e antropologiche: esiste una letteratura vasta sul mito della Sibilla ed è difficile scrivere qualcosa di “nuovo”, senza ripetere cose risapute. Proviamoci.

La chiesa di Santa Maria in Pantano (o delle Sibille), a Montegallo, prima e dopo il sisma del 2016-17. Nella foto a sinistra (Archivio Diocesi Ascoli Piceno), gli affreschi del Bonfini (sec. XVII), con le Sibille e i Profeti; a destra (foto C. Galiè), le condizioni attuali dell’edificio

 

La Grotta della Sibilla. La spelonca è stata un rilevante punto di riferimento per il territorio; è un posto di difficile accesso, sotto una caratteristica formazione rocciosa (la “corona”) che identifica la montagna e che ha sicuramente alimentato l’aura di leggenda.

 

La fama della presenza della Sibilla su queste montagne deriva, probabilmente, dall’ “adozione” della Sibilla Cumana da parte degli Umbri, alleati degli Etruschi contro i Romani nell’area di Cuma, vicino Napoli. Fu Firmiano Lattanzio, confessore di Costantino e uno dei Padri della Chie­sa, a tramandare il trasferimento di Amaltèa (la Sibilla Cumana) sui nostri monti. In realtà, studi successivi hanno indicato la Sibilla Appenninica come una personalità autoctona, una sorta di nume tutelare delle popolazioni montane.

La Maga di Corrado Giaquinto (sec. XVIII, Pinacoteca civica di Montefortino)

 

Ma, chi era in realtà la Sibilla? Diverse sono le immagini tramandate: la donna saggia dei popoli italici, memoria di saperi antichi, diventa una sacerdotessa di Cibèle o una vergine, profetessa di Apollo; nel Medioevo, con la Chiesa ormai dominante nella morale comune, è una donna ammaliatrice, la Maga Alcina… Nel Quattrocento, Enea Silvio Piccolomini (diventerà Papa Pio II), scrisse che «nell’antico Ducato di Spoleto, non lungi dalla città di Norcia, vi è un sito dove sotto una scoscesa rupe trovasi una caverna. […] havvi un convegno di streghe, di demoni, di ombre notturne e chi ha il coraggio può vedervi gli spiriti e parlare con loro e apprendere le arti magiche». Nel sec. XVI, Gian Giorgio Trissino, nella sua “L’Italia liberata da’ Gotti”, scriveva che molti andavano a cercare l’oracolo della maga, la Sibilla «da cui si p[oss]on saper tutte le cose umane, che son, che furo, e che dovran venire».

 

Il nucleo originario della leggenda affermava che la Sibilla era una vergine profetessa condannata a vivere nella Grotta sulla montagna per punire la superbia di aver voluto essere scelta da Dio per essere la madre di Cristo. La narrazione orale arricchì la storia con particolari “terreni”: la grotta diventò l’ingresso del Regno della Sibilla; nel sottosuolo erano custodite ricchezze straordinarie, guardate da draghi con gli occhi di fuoco. Nel regno sotterraneo, poi, vivevano bellissime ragazze (le Fate) che dovevano attirare i cavalieri con promesse di amori lascivi.

 

Leandro degli Alberti, storico domenicano del Cinquecento, ci informa che il piacere aveva un prezzo…  quello di rimanere prigionieri nel «bel Reame» in compagnia di personaggi che, di notte, «doventano spaventose serpi». I cavalieri entrati nel Regno della Sibilla avevano una “finestra temporale” per l’uscita (il 330° giorno), altrimenti vi sarebbero rimasti in eterno. In verità lo stesso scrittore dubita della veridicità della storia da lui stesso narrata, ricordando che gli scrittori dell’antichità (come lo storico e geografo greco Strabone e il romano Plinio) non ne avevano scritto.

La copertina dell’opera “Guerrino il Meschino” (Edizione Bertieri e Vanzetti, 1923

 

In un volumetto di Joyce Lussu (Le comunanze picene, èdito nel 1989 ma ristampato di recente) sono elencati i (tanti) personaggi che hanno tentato di penetrare il mistero della Sibilla: «Quando Cecco d’Ascoli s’inerpicava sui monti alla ricerca delle sibille, chi trovava e con chi parlava? Chi trovavano e con chi parlavano gli intellettuali europei e italiani che da Montemonaco o da Norcia continuavano il viaggio a piedi o a dorso di mulo con una guida locale, Pietro Bersuire e Flavio Biondo, Fra’ Bonavoglia e il principe Caracciolo, Luigi Pulci e Nicolò Peranzoni, Leandro degli Alberti e il Trissino, Ortelius di Anversa e il cavaliere del La Sale inviato dalla duchessa di Borgogna, Giovan Battista Lalli e Benvenuto Cellini, Paul von Merle e i messi di Enea Silvio Piccolomini, di Cardano e di della Porta, di Paracelso e di Agrippa von Nettesheim?»

 

La montagna sacra. La storia fantastica della Sibilla e della sua grotta è arrivata fino ai nostri giorni: è affascinante pensare alla continuità culturale della sacralità della montagna. Già nel sec. I, Svetonio scrisse che Vitellio, dopo la battaglia di Bedriaco, «celebrò una sacra veglia sui gioghi dell’Appennino», nella Grotta della Sibilla.

 

L’importanza del rilievo (e della sua abitatrice) era così radicata nella cultura popolare che la “nuova” religione cristiana se ne appropriò: la Sibilla diventò la profetessa che aveva prean­nunciato la venuta di Cristo. Dal Cinquecento al Settecento la Sibilla venne raffigurata in diverse chiese della montagna, come a Santa Maria in Pantano (distrutta nel terremoto del 2016-17), per poi arrivare a Roma (nella Cappella Sistina, Michelangelo ne dipinse diverse, vicino ai Profeti). L’artista delle Sibille di Santa Maria in Pantano è Martino Bonfini (sec. XVII, di Patrignone), che pochi anni prima aveva dipinto, nel santuario dell’Ambro, ben dodici Sibille (secondo la storia tramandata da Marco Terenzio Varrone, secc. II-I AC), tutte identificate da un cartiglio meno una, vestita di rosso: probabilmente, la “nostra” Sibilla Appenninica.

L’attacco del sentiero. In basso a sinistra, il Rifugio Sibilla

 

È interessante notare che «personaggi della tradizione pagana (le Sibille, appunto) trovarono “ospitalità” in un edificio cristiano, a testimonianza di una tenace tradizione locale. Questa commistione non era rara e testimonia come la connotazione negativa della figura della Sibilla sia relativamente recente, dato che antecedentemente essa era accettata dalle gerarchie ecclesiastiche, convinte, forse, dal forte radicamento di questa figura mitica nell’immaginario popolare». Ricordiamo che le Sibille erano lo stesso numero dei Profeti e degli Apostoli e che, ancora nel sec. XIII, Tommaso da Celano, biografo di San Francesco d’Assisi e autore del celeberrimo Dies Irae, mette la Sibilla sullo stesso piano di David (Dies Irae Dies illa/ Solvet saeclum in favilla/ Teste David cum Sybilla [Il giorno dell’ira, quel giorno/ dissolverà il secolo in una brace/ Testimone Davide con Sibilla, NdA]).

La cresta est. Parallelamente, corre l’ “incomprensibile” strada sterrata

 

Le Fate. Abbiamo visto che la Sibilla vive nella Grotta sulla montagna; le fanno compagnia le sue ancelle (le “fate”). Sono ragazze avvenenti ma con i piedi caprini che ne tradiscono la natura animale; secondo la tradizione, spesso escono di notte dalla grotta e raggiungono i ragazzi dei paesi ai piedi della montagna, per ballare con loro il saltarello, danza popolare del luogo. Sono personaggi positivi che insegnano a filare e a tessere alle ragazze; hanno un solo “obbligo”, rientrare in grotta prima del sorgere del sole: proprio la mancanza del rispetto di questo orario avrebbe fatto arrabbiare la Sibilla che avrebbe provocato una scossa tellurica, distruggendo il paese di Colfiorito, trasformandolo in un mucchio di pietre (l’attuale Pretare).

 

A una loro fuga precipitosa viene attribuita la presenza della faglia del Vettore (all’isoipsa dei 2000 m), la cosiddetta Strada delle Fate, aperta nel terreno dai loro zoccoli.

 

La tradizione vuole che le fate dei Sibillini, demonizzate per secoli nelle prediche dei religiosi, furono costrette a scomparire, rifugiandosi nel loro mondo invisibile.

La cima del Monte; il colore rosato deriva dalla presenza di ossidi nella composizione della roccia (scaglia rosata)

 

Secondo Arthur Schopenhauer un “velo di Maya” copre la realtà delle cose: in questa ottica la danza delle fate può essere interpretata come un rituale magico, un convegno di streghe o creature fantastiche…  e così “torniamo” alla magia dei nostri monti.

 

A Pretare, borgo alle falde del Monte Vettore, pesantemente danneggiato dall’ultimo terremoto, ogni anno si tiene una rappresentazione popolare (La discesa delle fate), con buona partecipazione popolare, che mantiene viva la memoria di queste creature fantastiche.

 

Il Guerrìn Meschino. A metà del sec. XV, Andrea de’ Mangabotto da Barberino scrisse il Guerin Meschino, storia di un cavaliere alla ricerca delle proprie origini. La leggenda del Guerrìn Meschino assomiglia a quella usata dal musicista tedesco Richard Wagner per la sua opera Tannhäuser, incentrata sulla figura del poeta errante che avrebbe visitato, grazie alla sua arte, il Venusberg (la Montagna di Venere), un luogo fantastico dove avrebbe trascorso un intero anno, tra piaceri e voluttà. Marco Scataglini ha scritto (2007) che l’autore, «tra il 1400 e il 1431, ispirandosi a racconti di origine francese, vecchi già di due secoli, che egli adattò alla realtà italiana. E dall’Italia il racconto tornò a circolare verso nord, sino a raggiungere la Germania, dove fornì la materia prima per il romanzo cavalleresco Tannhäuser, da cui Richard Wagner trarrà la sua famosa opera lirica. Il Guerrino, pentito, sarebbe riuscito ad allontanarsi da quel luogo di perdizione per recarsi a Roma per chiedere perdono al Papa (Urbano IV, sec. XIII). L’assoluzione fu negata dal Pontefice che dichiarò che avrebbe perdonato il poeta «quando la verga del pellegrino [un bastone secco, NdA] sarebbe fiorita». Tannhäuser torna in patria senza speranza ma, tre giorni dopo l’incontro col Papa, il suo bastone fiorisce… Sono le linee fondamentali della storia del Guerrino del Barberino: il rispetto del codice d’onore cavalleresco, la ricerca della verità, la realizzazione dell’impresa con coraggio e devozione.

L’ingresso della mitica Grotta; un deposito di frana lo ostruisce dagli anni ’30 del Novecento ma è dagli anni ’60 che la chiusura è “totale”

 

Il parallelismo tra le figure del Tannhäuser e del Guerrino è stato messo in evidenza da Cesare Catà che ha scritto (2010) di una rivisitazione della leggenda di matrice germanica in ambiente marchigiano, «dove era già presente il culto popolare della Sibilla , diventata, nell’opera del Barberino, la Fata Alcina: una storia fantastica che potrebbe anche aver avuto un altro percorso, nascendo nelle nostre zone e “rimbalzata” dall’area centro-europea. Nella ricerca ossessiva delle proprie origini, metafora della ricerca del sé, il Guerrino arriva alla Grotta delle Fate «nei monti della Marca», dove si trova la Sibilla che potrà svelargli la sua vera origine.

L’orrido dell’Infernaccio dal Monte Sibilla. In evidenza, i pilastri rocciosi del Monte Priora. «Volendo rotolare in basso una pietra, se ne perderebbe la vista in un baleno (Antoine de La Salle)»

 

La storia del Guerrino è complessa; nel linguaggio familiare, il “giro del Meschino” indica un percorso tortuoso, quasi labirintico, per arrivare a un risultato.  Dopo il peccato (nelle viscere della montagna sibillina), il cavaliere dovrà compiere un percorso redentivo che lo porterà verso un’altra grotta, al “pozzo di San Patrizio”, nel Donegal irlandese: per semplificare, dall’inferno (grotta della Sibilla) al purgatorio (grotta irlandese).

 

Per concludere, la bella frase introduttiva di un articolo di Stefano Cazorla (L’alito della Sibilla, 2019): «Sui Monti Sibillini tutto è avvolto dal mistero e anche la nebbia sembra l’alito della Sibilla, oracolo, maga, maestra, ammaliatrice ma soprattutto personificazione imperitura della Dea Madre, divinità femminile ancestrale comune a tante civiltà».

«… per la sua forma singolare fece chiamare la stessa montagna anche col nome di Monte Corona (Guida della Provincia, 1889)»

Un escursionista sale il gradino di roccia aiutandosi con una catena. Antoine de La Sale scrive di «corde grosse e piccole»

L’affilata cresta che conduce alla cima

In ambiente dolomitico, Foce, frazione di Montemonaco, e la valle del Lago di Pilato (Piano della Gardosa), una delle via di salita ai Sibillini


© RIPRODUZIONE RISERVATA

Torna alla home page


Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati




X