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Le storie di Walter: Dino Ferrari, carattere impossibile e genio assoluto

ASCOLI - Protagonista di primo piano dell’arte del ‘900, ha avuto pochi riconoscimenti e scarsa valorizzazione nella sua città. Lungamente celebrato a livello nazionale, ha padroneggiato tutti gli stili nell’arco di cinque secoli e trovato, infine, il suo personale linguaggio. Fra i tanti cacciati in malo modo dal suo studio, anche visitatori eccellenti come il vescovo Marcello Morgante e Vittorio Sgarbi
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Ascoli, anni 70, Ferrari si affaccia dal balcone del suo studio in Piazza Sant’Agostino

 

di Walter Luzi

 

Dino Ferrari è stato un personaggio fuori dal comune per talento, e caratteraccio, nell’ambito culturale cittadino. Certamente fra gli artisti più autorevoli, poliedrici, longevi e prolifici di tutti i tempi, trova posto a pieno diritto sul podio dei grandissimi ascolani del Novecento. Figura, per levatura, accostabile solo a pochissimi altri, ma forse unica nel riuscire a vivere della sua sola arte per tutta la vita.

Un’opera di Ferrari

 

Ritrattista eccelso, è stato interprete sensibile di stili pittorici in continua evoluzione, eterogenei e sovrapposti nelle varie fasi della ricerca di un suo proprio, personale linguaggio. Un percorso reso più difficile, in larga parte, dall’esigenza vitale di trarre dalle proprie immense capacità un legittimo profitto, dalle tensioni di chi ha scelto esclusivamente l’arte per mantenersi, in anni dove quella di mettere insieme il pranzo con la cena era impresa ardua per tutti. Con il suo carattere complesso, contraddittorio e spesso insopportabile, il suo talento puro, istintivo, pragmatico, il suo ego smisurato e la sua furia creatrice senza pari, la figura di Dino Ferrari continua ad affascinare.

“Testa di Cane” (1926)

 

Come ben lo descrive Daniele De Angelis nella sua bellissima biografia del 2014 «…un animo tumultuoso in perenne sfida con sé stesso…». Lasceremo ad altri, molto più ferrati di noi, le disquisizioni tecniche sulle varie fasi della sua pittura. A noi piacerà raccontare solo la sua storia. Per farlo conoscere a chi non sa nemmeno chi sia stato. Per chiederci, e chiedere, perché la civica Pinacoteca della sua città, la palude dove scelse di restare impantanato solo per affetto, abbia esposta soltanto una sua opera. O perché nel museo d’arte moderna, presso il polo culturale Sant’Agostino, non vi sia alcuna traccia della sua sterminata produzione, di cui pure il Comune dispone. O perché, nel centenario della nascita, caduto nel 2014, sia stata la sua famiglia, e non altri, a promuovere iniziative degne per onorare la sua Memoria.

 

Ascoli, da infelice e perpetua tradizione, continua a non saper adeguatamente valorizzare i suoi pochi patrimoni autentici. La casa ascolana di Dino Ferrari, affaccio sulla centralissima piazza Viola, è una galleria d’arte permanente. L’unico figlio, Valentino, e l’unico nipote, Marco, hanno assunto sulle loro spalle il grande onore, ma anche il gravoso onere, di custodire la sua storia e tramandare il suo ricordo. Soprattutto, usando le parole del nipote «…di dare il giusto riconoscimento all’importanza della sua opera, facendo sì che un tassello del mosaico della storia dell’arte recente, non solo ascolana, ma italiana, sia collocato al posto che gli spetta…».

Il piccolo Dino con il papà e il fratello nella banda musicale ascolana nel 1926

 

Allievo nello studio Coppola

 

Dino Ferrari nasce il 29 maggio 1914 nel centro di Ascoli, quartiere di Santa Maria Intervineas. Da Cleofe e Giovanni, che è e capo della falegnameria alla Sice, oltre che valente ebanista, nei ritagli di tempo, nel suo laboratorio attiguo alla loro abitazione in via del Cassero. Dino dimostra straordinaria attitudine per il disegno fin da piccolo. A undici anni entra come allievo nello studio del già noto e affermato pittore Egidio Coppola, che lo definirà in una affettuosa dedica “il più intelligente dei miei alunni”. Nel 1926, a undici anni, per risparmiare materiale, dipinge entrambi i lati di una tavoletta. Due olii su cartone, soggetti una barca e un cane. Nella scuola di Coppola ci resta fino al 1929, anno della scomparsa del suo primo maestro.

 

Si iscrive poi alle Industriali, ma anche ad un corso serale di disegno artistico tenuto dal professor Aldo Castelli. Una buona palestra che lo avvicina all’amicizia e alla stima del direttore della civica pinacoteca Riccardo Gabrielli. Intanto, insieme a mezza famiglia, suona anche nella prestigiosa banda musicale cittadina. Lui il clarinetto, come i fratelli Piero e Mario, il clarino. Il papà invece il trombone basso. Ancora ragazzo, per guadagnarsi qualche soldo, imbraccia anche il sassofono, in una piccola orchestrina di musicanti che è richiesta fin per le feste paesane del vicino Abruzzo.

 

Ne fanno parte, oltre a lui, Mario e Valentino Gezzi, Oddo Fedeli, Sante Fazzini e Gabriele Luzi. Una formazione ben nota per tutti gli anni Trenta e, in occasione dei veglioni di Carnevale anche successivamente, grazie alla quale arrotonderà le sue magre entrate. Ma della musica, nella vita di Dino Ferrari, torneremo a parlare più avanti.

 

*Il testo continua dopo le foto 

Nel gruppo di musicanti ascolani a Civitella del Tronto nel 1937

Don Vincenzo (1932), primo ritratto di Ferrari venduto all’ingegner Marino Marini, mecenate dell’artista

 

Quel primo quadro venduto

 

Per tornare alla pittura, don Vincè, un anonimo personaggio sambenedettese, a cinque lire a seduta, è il suo primo, vero modello. Il suo ritratto intenso, dove si può già riconoscere il verismo sociale napoletano, viene acquistato dall’ingegner Marino Marini, fra i primi estimatori, mecenati e collezionisti di Ferrari. Dino ha solo diciotto anni. Il servizio militare obbligatorio di leva lo presta a Casale Monferrato.

 

Casale Monferrato, 1933. Ferrari, durante la leva militare, all’opera. In particolare, qui sta eseguendo una copia dell’Angelus di J.F. Millet (1858)

 

Ma non smette per questo di dipingere, e di suonare il suo sax alle feste danzanti nel circolo ufficiali. Quando torna nella sua città apre subito un laboratorio sul Lungo Castellano nei pressi di Porta Vescovo. Non naviga certo nell’oro, ma è sempre a lavorare davanti alle sue tele. Ritrae volti scavati di popolani e derelitti, segnati dal disagio economico ed esistenziale, abbrutiti dalle fatiche e dall’alcol. Bimbi dai vestiti laceri o lavandaie intente alla cura del panno, allegre e ciarliere. Tratti che sanno parlare anche dei sentimenti, e delle loro dure esperienze di vita. Nel 1937 gli viene commissionato il primo lavoro importante: un quadro raffigurante Il Salone della Vittoria all’interno della Pinacoteca, subito acquistato dal Comune.

 

Il dipinto salone della Vittoria (1937)

Gli orfanelli di Ortona (1948, olio su tela)

 

Nello stesso anno partecipa alla prima mostra della sua lunga carriera al Palazzo degli Studi di Recanati insieme a due artisti concittadini, Aldo Castelli e Lorenzo Sabbatucci. Primo riconoscimento importante al suo valore, maturato in un ambito provinciale lontano anni luce dai fermenti culturali e artistici che pervadono l’Europa. Un isolamento che lo aiuta a rompere il suo amico ed estimatore della prima ora, il Cavalier Marino Marini. Lo ospita a Roma, e lo introduce nello studio di Sigismondo Meyer, prestigioso ritrattista sambenedettese di nascita e svizzero di origini, e nel mondo della ricca aristocrazia della capitale, nell’ambito della quale Ferrari si fa subito ammirare come ritrattista. L’esperienza romana è molto proficua. Ferrari deve presto trasferire il suo studio in ambiente più spazioso, un attico in via Nicolò IV°, a causa dell’aumento di committenze. E’ costretto agli straordinari per farvi fronte. Soprattutto quadri di genere e ritratti classici, ma anche le richieste di raffigurazioni di arte sacra si impennano. Molte le chiese che accolgono ancora oggi i suoi lavori, come quella di Santa Maria in Piazza a Petritoli.

“Le nozze di Cana” custodito nella chiesa di Petritoli

 

Nel pieno di una produzione copiosissima arriva però la seconda guerra mondiale ad interrompere drammaticamente la sua attività.

 

Critico con le nuove avanguardie

 

Combatterà in prima linea, nel 1941, in Croazia, sparando, non sapendo nemmeno a chi, chiudendo gli occhi nel premere il grilletto, per non vedere quello che considera un orrore. Riesce a portare anche a casa la pelle, e due anni dopo, nel 1943, sposa Anna Maria “Ninetta” Gezzi, che rimarrà la sua compagna per una vita intera. Si riavvicina anche al florido mercato romano dove è sempre molto apprezzato per il suo linguaggio pittorico di fine Ottocento. Tradizionale. Che lui non perde mai di vista, anche di fronte all’avanzare delle nuove tendenze espressioniste. Avanguardie artistiche contro cui, almeno per buona parte degli anni ‘50, Ferrari si scaglierà. Come aveva già fatto con i critici troppo benevoli verso De Chirico, nel 1953 tuonerà, con toni e definizioni provocatorie, dalle colonne de Il nuovo Piceno persino contro le opere di Pablo Picasso. Artisti innovatori rei, secondo lui, di una rottura troppo decisa con i canoni estetici storicizzati.

 

Tre anni prima, nel 1950, Dino Ferrari è diventato papà con la nascita del suo unico figlio, Valentino, proprio mentre la chiesa del Sacro Cuore gli commissiona una monumentale iconografia, Un’opera che realizzerà, fra incomprensioni e continui battibecchi con la committenza, in cinque anni, grazie alla collaborazione di Gaetano Carboni. Seguiranno altri lavori di arte sacra nei quali come scrive sempre Daniele De Angelis nella biografia del maestro «…Ferrari tenta di far coesistere stili e tensioni artistiche differenti, alla ricerca di un equilibrio fra tradizione e innovazione…».

Ferrari con il figlio e la moglie nel 1962

 

Ma il suo graduale, sofferto, allontanamento dal linguaggio neo-verista arriverà sul finire degli anni ‘50. Una mutazione colta anche dalla stampa locale, con Antonio Rodilossi sul Nuovo Piceno, e con Carlo Paci sul Messaggero. Una evoluzione a cui non può essere estranea la frequentazione con Osvaldo Licini.

 

«Per tutti gli anni Cinquanta, fino alla sua morte, nel 1958 – ricorderà Valentino Ferrari – il maestro, anziano e claudicante, frequentò la casa di mio padre. Spesso si fermava a pranzo da noi, con il suo pesante cappotto, il basco blu sui capelli bianchi e un aspetto un po’ trasandato. A tavola era silenzioso, forse per timidezza, nonostante mio padre, pur molto più giovane di lui, fosse sempre aperto e rispettoso nei suoi confronti. La mamma mi confidò che papà in qualche occasione gli aveva anche elargito volentieri piccole somme in denaro. Il maestro, credo anche per cercare di sdebitarsi, aveva regalato a mio padre due piccole tele raffiguranti due Amalassunte, una su fondo blu e una con stella, che conserverà per sempre appese nel suo studio».

 

Licini e Ferrari, fra i più validi artisti ascolani del ‘900, conosceranno destini opposti. Una vita grama e grande celebrità postuma, per il primo. Una vita più agiata, ma il completo oblìo post mortem, per il secondo. Anche le rispettive committenze sono state di segno opposto. A quella, essenzialmente borghese ed ecclesiastica, di Ferrari, si oppone quella politicamente militante, o, vistosamente sfruttatrice dei galleristi, di Licini. I due si ritrovano ad una collettiva organizzata dall’associazione “Cecco d’Ascoli” nel 1957, insieme a, fra gli altri artisti, Delaunay, Derain, Leger, Picasso, Chagall, Campigli, De Chirico, De Pisis, Manzù e Morandi.

 

Orecchio assoluto

Dino Ferrari, intanto, non ha mai abbandonato il suo secondo amore, la musica. Sarà pittore poliedrico, ma anche musicista dotato di orecchio assoluto. Oltre a saper scrivere e leggere le note musicali infatti, riesce a riprodurre i suoni con lo stesso registro, la medesima tonalità. Dote straordinaria, naturale, innata anche questa, come quella di riuscire a riprodurre perfettamente ogni dipinto. Dopo la guerra Dino Ferrari fa parte della prima orchestrina jazz del Piceno, la “The original band” che si conquista in breve tempo una certa, meritata popolarità e gli offre un provvidenziale sostentamento economico.

Ferrari con gli altri componenti della Original Band negli anni 40

 

«Fino al 1954 – ricorda il figlio Valentino – il Festival di Sanremo era trasmesso solo alla radio. Lui ascoltava le canzoni in concorso, e trascriveva su uno spartito vuoto le note dei brani più adatti al loro repertorio, da suonare durante le serate nei locali da ballo. Poi preparava le partiture per ogni singolo strumento e, dopo qualche prova, la band era già in grado di anticipare l’ascolto dei successi del momento, prima ancora che uscissero in commercio i dischi».

 

Una carriera parallela, quella di musicista, che condurrà, in formazioni diverse, fino alla fine degli anni Settanta.

 

La pittura come esigenza vitale

L’amicizia e la collaborazione con Luciano Nicoli, promotore e organizzatore carrarese di mostre e iniziative legate alla pittura, e Giuseppe Cairo, gli aprono le porte di Firenze e della Toscana tutta. A Roma, nel 1955, si guadagna la partecipazione al prestigioso Premio Marzotto. Due anni dopo invece, esponendo alla Permanente di Milano, al Premio Suzzara. I lavoratori, i popolani, sono i suoi soggetti preferiti. All’etichetta di pittore neocubista simbolista che ora la critica gli affibbia, e che, tanto per cambiare, non gli piace, preferisce quella di neorealista. Meglio, lui stesso la definisce con precisione “astratta-figurativa con sfondo sociale veristico”. Al di là delle etichette resta la sua poderosa forza produttiva. Talento istintivo, lavora di getto, preferibilmente in solitudine, da metà mattina fino a tarda sera, salvo la pausa per un pasto frugale che il figlio gli porta in studio dalla loro casa di via dei Cappuccini.

 

Autoritratto di Dino Ferrari (olio su tela, 1946)

“Carnevale ascolano” (1972, olio su tavola)

Dino Ferrari nel suo Studio di Via Nicolo IV, nel 1950, all’opera su “Il Battesimo di Cristo”

 

Ferrari avverte l’arte come una missione, la pittura come una esigenza vitale. Dal senso grafico innato, eccellente ritrattista, specialista dell’arte sacra, nel decoro di chiese e pale, poco diffusa fra gli artisti del ‘900, si supera nelle copie d’autore. Per i quadri “alla maniera di…” o “nello stile del…” che mezza Italia gli richiede, si appropria, reinterpreta e padroneggia tutti gli stili con una eccezionale velocità di esecuzione. Frequenti cambi di registri e soggetti che non creano scompensi all’equilibrio delle sue composizioni, in ossequio al suo credo veristico che sente minacciato da tutti gli incombenti “ismi” del ‘900. Da lui, come detto, almeno inizialmente, detestati. Si può ben comprendere la sua perenne tensione per una dedizione assoluta. Per i rischi che corre scegliendo di vivere di sola arte nel posto peggiore, la provincia più remota, che sa essere anche particolarmente ingrata e ostile, soprattutto con i riottosi alle frequentazioni dei salotti degli altolocati, alle tavolate dell’alta borghesia affollate di conviviali che contano. Per le critiche negative, da qualunque parte arrivino, a fronte delle quali ha sempre reazioni irate, sanguigne, quasi sempre eccessive. Per la consapevolezza di assicurarsi commesse a getto continuo, e dunque conseguente benessere economico, sacrificando però tempo ed energie da dedicare all’esplorazione di nuove tecniche e linguaggi espressivi. E’ in questo clima che gli arriva, inattesa, una richiesta.

La scuola del Palazzetto Longobardo

 

Nel 1957 il desiderio di un gruppo di giovani ascolani di frequentare una scuola di pittura, trova supporto nella redazione ascolana de Il Messaggero, e ospitalità dall’associazione Brigata amici dell’arte presieduta da Nunzio Giulio Teodori nei locali al primo piano del Palazzetto Longobardo. Più complessa si rivela invece l’impresa di reperire docenti, anche perché l’incarico non prevede compensi. Declinano tutti gli interpellati. Gli scultori Ortenzi e Mancini, e i pittori Castelli ed Ercolani fra gli altri. Accetta l’invito solo Ferrari. Anche per l’amicizia che lo lega ad uno di quei ragazzi così ansiosi di apprendere. Gaetano Carboni.

Ascoli anni 60, Scuola dal Vero del Palazzetto Longobardo. Una lezione di Ferrari

 

Insieme a lui costituiscono il primo nucleo di allievi, Fausto Di Flavio, che lo seguirà più di tutti, Gennaro Perone e Arnaldo Marcolini. A loro si aggiungeranno poi Remo Benigni, Dante Fazzini (a soli 12 anni), Angelo Squarti Perla, Luigi Morganti, Domenico Filipponi, Giuseppe De Bellis e Paola Barbara Castelli che sarà la sua prima biografa, Farina, e “Nazza”, al secolo Nazzareno Luzi. Si autotassano per acquistare la prima attrezzatura minima occorrente. Fogli di carta sporcata scura e ruvida, più adatta ad ottenere mezzi toni e colpi di luce, grandi più o meno 50×70 centimetri, carboncini di fusaggine che si può spolverare, ma anche cancellare con la gomma. Più tardi si passerà poi a maneggiare anche i colori. Il primo corso in quella sorta di bottega rinascimentale, parte nel febbraio del 1958.

 

Ascoli, anni 60, Scuola dal Vero del Palazzetto Longobardo. Ferrari con il suo allievo Gaetano Carboni

 

Nonostante la scuola popolare non navighi certo nell’oro, Ferrari la imposta con scrupolo. «Qui non si viene a fare hobby», suole ripetere, e insegna loro, principalmente, l’amore per l’arte. Test iniziale di ingresso ed esame finale, con esposizione al Centro universitario piceno, o anche al Palazzo dei Capitani, dei loro lavori. Che chiamerà a giudicare da critici ed artisti di livello, come Carlo Melloni e Nino Anastasi fra gli altri. Le lezioni, che iniziano nel tardo pomeriggio, verso le 18, durano almeno un paio d’ore. Lui dà loro del tu, ma gli allievi devono dargli del lei. Non tollera i ritardi e le assenze prolungate, o ingiustificate. Perdona ai suoi ragazzi solo quelle imposte da concomitanti appuntamenti galanti. I modelli, invogliati da qualche spicciolo, vengono ingaggiati dai ragazzi soprattutto nelle osterie, o al ricovero Ferrucci. Rughe e tratti marcati, volti scavati dai vizi e dalle fatiche della vita, sono i preferiti. Mezzi busti, primi piani o di tre quarti. Il maestro non vuole la somiglianza, vuole vedere l’anima di quei poveretti trasparire dai chiaroscuri. Per spiegare fa poca teoria e molta pratica. Il suo metodo di insegnamento è arcaico, ma estremamente concreto.

Ferrari con alcuni suoi allievi

 

Gira fra i cavalletti, corregge in diretta i ragazzi, mette mano ai loro bozzetti, raccomanda proporzioni, composizione, equilibrio. Umorale, brutale nei suoi giudizi quando gli gira il pallino, sa essere anche spiritosissimo, quando è in vena. Chiamerà il professor Alberto Costantini, insegnante di Disegno alla “D’Azeglio”, a tenere lezioni di storia dell’Arte. Porterà i suoi allievi in visita di istruzione ai musei capitolini romani e a Firenze. Predilige i classici del Rinascimento, e sarà a lungo allergico, come detto, a tutti i nuovi “ismi” che sta portando il Novecento. Avanguardie che nella sua scuola non possono nemmeno essere nominate. Chi mette in discussione il suo credo artistico rischia l’espulsione. Il confronto critico con lui è escluso. Chi esce fuori dai sui dettami, esce fuori anche dalla scuola. E finisce automaticamente nella galleria da lui disegnata ed esposta all’ingresso dell’aula dove raffigura come impiccati e maledetti gli allievi o gli artisti che cercano nuove vie nell’arte allontanandosi dai suoi canoni. Ma premia, generosamente, anche i migliori, con le sue opere, che recano spesso sue affettuose dediche autografe. La scuola di Dino Ferrari al Palazzetto Longobardo, portata avanti dal 1958 al 1965, è rimasto esperimento unico nel suo genere ad Ascoli. Il maestro ha dato l’opportunità di sviluppare i propri talenti a ragazzi che non avevano altre possibilità in una piccola cittadina di provincia senza neanche, allora, un liceo artistico, e lontanissima dalle accademie e dai grandi circuiti culturali.

Ferrari nel centro di Ascoli

Il maestro con i famigliari al mare

 

Gli impiccati della Galleriola

 

Nel 1958 Ferrari entra con un’opera nella prestigiosa Galleria fiorentina di Palazzo Pitti dove lo stima moltissimo il professor Poggi e, sempre a Firenze, alla Galleria Casa di Dante. Ma inviti ad esporre gli giungono, fra le tante, anche da Roma, Napoli e tutta la Toscana, dalle prestigiose Pro Carrara e Galleria Bessi. Nella sua città, fra le altre, espone alla Galleria Rosati. Personali e collettive si moltiplicano riscuotendo sempre successo e riconoscimenti, anche per l’arte sacra. Ora anche lui è però alla ricerca percorsi nuovi. Otto anni dopo le invettive contro il modernismo è lui ora ad accusare di miopia culturale e gusto conservatore la sua città. Il critico Melloni colloca questa sua fase creativa vicina ai Macchiaioli toscani, o agli esponenti della scuola partenopea di fine 800, moderni pre-impressionisti. Pittura atipica, eclettica, giocata sull’intensità cromatica del contrasto fra i colori. In fase di stesura usa, incredibilmente, solo un vecchio pennello consumato, “nu mazz’cchitt’” come lo chiama lui, con pochi peli. Nel 1960 trasferisce lo studio in piazza Sant’Agostino, dove realizza la Galleriola, il suo personale spazio espositivo permanente riservato ai suoi lavori, che diverrà punto di incontro di artisti, collezionisti e appassionati. Odore forte di benzina, utilizzata come diluente per i colori, nell’aria.

 

Studio di Piazza Sant’Agostino fine anni ’80

Il maestro con tutta la famiglia Ferrari riunita. In piedi al centro il figlio Valentino

Con la moglie nel 1970

 

Ordinato caos, artistico anch’esso, nei locali: opere disordinatamente accatastate, macchie di vernici sui pavimenti, scritte e caricature dei numerosi interdetti sui muri. Un circolo nel quale chi vi accede si sente sempre in soggezione, perché ad alto rischio di espulsione, a causa del carattere ombroso e imprevedibile, irascibile e manicheo di Ferrari. Ai frequenti alterchi, che nascono spesso solo per un giudizio divergente sull’estetica, o sul valore, di un’opera, seguono le cacciate, le diffide all’accesso, le interdizioni alla frequentazione del suo studio. Basta un apprezzamento eccessivo per un’opera, o la mancanza di apprezzamento per un’altra, a mandarlo su tutte le furie.

Con la moglie e il figlio nel 1970

 

Litigi, e conseguenti rotture clamorose, che investono tutti: allievi e critici, amici e galleristi, semplici visitatori e persino committenti, anche potenti. Come quella volta che cacciò in malo modo dal suo studio il vescovo Marcello Morgante, che pure era uno dei suoi migliori clienti, inseguito, brandendo un martello, per le scale. Identica sorte toccherà, anni dopo, anche a un critico d’arte vip come Vittorio Sgarbi, che Ferrari, fuori di sé, copre di insulti fin sul pianerottolo. Tutti gli espulsi finiscono poi, automaticamente, disegnati sui cartoni che tiene appesi all’ingresso. Caricature e maledizioni, didascalie sarcastiche e anatemi, anche in rima baciata, in un ”girone dei reprobi” ai quali è così ulteriormente palesata la loro fortemente sgradita presenza nel suo studio. I più detestati sono raffigurati impiccati, ma a volte (rare) possono seguire chiarimenti, riappacificazioni, e la revoca dell’ostracismo. Una maschera, forse volutamente caricata come dirà qualcuno, quella di Dino Ferrari, che contribuirà ad alimentare il suo mito, ma anche ad esporlo ad adulazioni interessate. Al consenso ostentato e peloso di chi mira solo ad approfittare della sua, grande ma talvolta male indirizzata, generosità. Molte delle sue opere donate per simpatia andranno ad alimentare infatti, spesso sottoquotate, il mercato dell’arte.

Galleria Arte Moderna Palazzo Pitti, “Assalto alla Città” (olio su tela, 1957)

 

La disputa con don Caioni

 

Ferrari sente la sua pittura molto vicina a quella di un altro grande maestro del ‘900, Massimo Campigli. Per tutti gli anni Sessanta evolverà ancora verso quello che lui stesso definirà Metallismo, punto di fusione fra figurativo ed astratto. Passa dalle crocifissioni, care ai temi sacri, alle immagini più vicine alla vita quotidiana, alla fatica e all’abbrutimento della difficile condizione umana. Per questi temi, così validamente affrontati nel 1964, la Camera dei deputati lo premia con la medaglia d’oro in una rassegna promossa dalle Acli sul tema “Il lavoro italiano”. La sua capacità di padroneggiare tutte le epoche pittoriche lo fa diventare punto di riferimento degli antiquari a livello nazionale. Riesce a integrare ogni contesto epocale dal ‘400 all’800, riproducendo perfettamente ogni capolavoro.

 

Definire copista un artista del genere vorrebbe essere sminuente e insultante, ma è solo dispregiativamente riduttivo. La perfezione infatti non è mai banale, né, tanto meno, facile da raggiungere. Vira progressivamente verso lo stile che ricorda il conterraneo Osvaldo Licini, che ha molto, come detto, amato e rispettato. Nel 1974 la prima personale nella sua città, presso la galleria Nuove proposte. E’ un punto di arrivo, parole sue, di un percorso creativo. Ma, anche per lui, sarà molto difficile essere profeta in patria.

“Urlo del Cristo morente”

 

«Nelle opere della piena maturità artistica – scrive sempre Daniele De Angelis nel suo libro – Ferrari libera tutti i suoi fantasmi, i suoi drammi e i suoi incubi… spiazzante e imprevedibile, l’artista propone le opere più personali e intense di tutta la sua carriera…».

 

È ormai un artista libero. Lo stravolgimento espressivo registrato negli anni ‘80 e ‘90 pervade anche le sue opere di arte sacra. Ma lui resta sempre lui. Polemizza ferocemente, a lungo, con don Costantino Caioni, parroco a Villa Sant’Antonio. Lo spostamento di una crocifissione, “L’urlo del Cristo morente”, non autorizzato dall’artista, all’interno della chiesa di Sant’Antonio da Padova dove era stata realizzata appositamente per l’altare maggiore, scatena una lunga e accesa disputa fra i due, trascinatasi dalle colonne dei giornali, fin davanti al Vescovo e quindi in tribunale.

Il palio della Quintana 1994

 

Anche i fedeli si schierano dalla parte dell’artista, ma, alla fine, la spunta il padrone di casa, il prete. Quando, nel 1981, nasce il suo unico e amatissimo nipote, Marco, Dino Ferrari ormai è artista affermato, di valore riconosciuto dal pubblico e dalla critica, che gli tributa, fra i tanti altri in quell’anno il premio Città di Bologna. Nel 1994 lui e il suo vecchio allievo Gaetano Carboni disegnano i due palii della Quintana in occasione delle due giostre del Quarantennale. Dopo anni di produzione forsennata si dedica ora di più ai lavori personali, e viene fuori il Ferrari più maturo, asciutto e intimista.

 

Quel premio rifiutato

 

Dal suo studio affacciato su piazza Sant’Agostino, aggrappato alla ringhiera in ferro battuto, opera del mastro fabbro Tartufoli, Dino Ferrari continuerà a lanciare i suoi anatemi. Verbali, o scritti su cartelli lasciati lì appesi, come suo antico costume, contro tutti quelli che, secondo lui, se li meritano. E saranno diversi.

Ascoli, fine anni 80. Ferrari nel suo studio in posa davanti alla sua Crocifissione oggi custodita all’interno dell’auditorium “Neroni”

 

«Non ha mai avuto amici veri – dirà il figlio Valentino – ad eccezione, forse, solo del dottor Squarti Perla, fra i pochissimi a dimostrargli amicizia nel senso vero del termine, nella sua personale corte di cavalier serventi che aveva intorno…».

 

Nei primi anni Novanta, coerente con il suo personaggio, non ritira il riconoscimento di “Ascolano dell’anno” che vuole tributargli la redazione ascolana del Corriere Adriatico. Un premio limitativo, ritiene, per una caratura superiore, fuori concorso, come la sua. L’ultima evoluzione è la conclusione più alta di tutta la sua carriera, Ferrari la compie nella “Crocifissione” con predella, raffigurante la “Via crucis”, opera alla quale lavorerà, modificandola più volte, fino agli ultimi giorni della sua vita.

Predella con via crucis, acrilico su tela 2000. Auditorium Carisap

 

Acrilico su tavola che sa di salvezza solo promessa, di disperazione senza redenzione, ceduta poi in comodato, anche a causa delle grandi dimensioni, alla Fondazione Cassa di Risparmio.

 

L’immersione pressoché totale di Dino Ferrari nella sua arte, protrattasi senza pause per ottant’anni tondi, viene interrotta, con misericordiosa dolcezza, il 15 settembre 2000. La morte lo sorprende, silenziosamente, mentre è seduto al suo sgabello da lavoro, davanti alla sua ultima tela, con il pennello che gli rimane stretto fra le dita fino all’ultimo respiro. Il nipote Marco ha ricevuto dal nonno un ritratto in regalo per ognuno dei suoi primi diciannove compleanni. Tradizione interrotta solo dalla morte del maestro, ma non è per questo che Marco ha fatto della custodia della sua Memoria una missione di vita.

Largo Dino Ferrari, particolare della lastra con intitolazione

 

Nel centenario della nascita di Dino Ferrari, caduto nel 2014, a proprie spese la famiglia ha organizzato un convegno, e pubblicato la bella biografia curata, come detto, da Daniele De Angelis. In occasione delle celebrazioni è arrivata anche una medaglia commemorativa anche da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nello stesso anno è stata affissa anche una targa sul balconcino del suo studio di piazza Sant’Agostino. Due anni dopo, nel 2016, la famiglia è riuscita anche a fare intitolare al Comune uno dei luoghi dove il maestro ha più a lungo vissuto. Grazie all’interessamento dell’allora presidente del consiglio comunale Marco Fioravanti, l’ex Largo Giardini d’infanzia oggi si chiama Largo Dino Ferrari.

Il convegno

 

Permane invece una certa mancanza di attenzione, e, forse, anche, dispiace dirlo, di considerazione. La sua ultima “Crocifissione” non trova infatti l’adeguata fruibilità, e la migliore valorizzazione, all’interno dell’Auditorium “Neroni”. Il progetto di allestire una mostra, magari permanente, delle opere dell’artista nella sua città, è rimasto, almeno fino ad oggi, una solo una pia intenzione. Nonostante la più ampia disponibilità, dichiarata e dimostrata, da sempre, dai diretti discendenti di Dino Ferrari. Il pittore «che ebbe l’arte da natura».

 

Il nipote Marco, al centro, e il figlio Valentino, in piedi, a un convegno nel 2016 sul restauro del palio della Quintana disegnato da Ferrari

L’immagine più famosa del maestro del 1976


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